di Benedetta Frigerio
Dopo oltre sette mesi di carcere liberati i due cristiani. Infondate le accuse di spionaggio, attentato allo Stato e blasfemia. Il reverendo Yat Michael: «È come se fossi rinato un’altra volta».
È finalmente finito l’incubo di Yat Michael e Peter Yen Reith. I due pastori protestanti, in carcere da oltre sette mesi, erano stati accusati dai servizi di sicurezza del Sud Sudan di danneggiare il sistema costituzionale, di spionaggio, di condurre una guerra contro lo Stato e di blasfemia, e rischiavano la pena di morte. Ma grazie anche all’intervento di alcune associazioni americane ed europee per la difesa dei diritti dell’uomo, fra cui Italians for Darfur, sono stati liberati.
LA VICENDA. Yat Michael era stato arrestato nel dicembre del 2014 dopo aver recitato un sermone in una chiesa evangelica presbiteriana di Khartoum in rotta con il governo islamico, mentre Peter Yen Reith era finito in carcere il mese successivo dopo aver difeso il primo. La polizia sudanese li aveva accusati di attentato allo Stato oltre che di spionaggio e di blasfemia, togliendo loro la possibilità di difendersi. In questi mesi, infatti, i due uomini avevano subìto misure ingiuste, come il trasferimento immotivato in un carcere di massima sicurezza o come il divieto di incontrare i familiari e il proprio avvocato, Mohaned Alnour Mustafa. Quest’ultimo però, pur essendo musulmano, aveva spiegato a tempi.it di voler combattere contro uno Stato che, imponendo la sharia, toglie ai cristiani la libertà religiosa. Così facendo ha voluto anche spingere la comunità internazionale a prendere posizione.
Le ambasciate italiana, inglese e americana si erano quindi occupate della vicenda mentre una petizione presentata all’alto Commissario dell’Onu aveva contribuito a portate il caso fuori dai confini nazionali. Anche la Commissione americana per la Libertà religiosa internazionale era intervenuta parlando delle «enormi violazioni della libertà religiosa e del credo» perpetrate dal governo sudanaese. Mervyn Thomas, direttore di Christian Solidarity Worldwide, una delle organizzazioni che ha lavorato per la scarcerazione dei pastori, aveva invece accusato il governo di violazione delle norme processuali «rendendo il processo una farsa».
LA SENTENZA. Durante le udienze era emerso che alcuni documenti trovati nei computer dei pastori, e per i quali erano stati accusati, erano stati inseriti nei pc a loro insaputa. La difesa è riuscita a portare all’udienza finale del 5 agosto a Khartoum due testimoni decisivi: un ex generale sudanese e il candidato alla presidenza del Sudan del 2010, Abdul Aziz Khalid. Il primo ha spiegato alla corte quanto sia facile inserire documenti sui computer a insaputa dei proprietari, mentre il secondo ha dimostrato che le accuse di attentato alla sicurezza e di spionaggio erano prive di fondamento poiché le prove utilizzate dall’accusa non erano documenti segreti ma mappe a cui può accedere qualsiasi cittadino. Cadute le accuse più pesanti, il tribunale ha comunque ritenuto Yat Michale colpevole di «violazione della pace» e Peter Yen Reith di «gestione di organizzazione criminale e terroristica», ordinandone però la scarcerazione. I due pastori, secondo i giudici, avevano già pagato con gli oltre sette mesi di carcere. Le famiglie dei malcapitati si sono dette «felici». In particolare, il reverendo Yat Michael ha dichiarato: «Mi sento libero dopo mesi di prigionia. È come se fossi rinato un’altra volta». La difesa sta comunque valutando se ricorrere in appello per le accuse dei reati minori.
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