sabato 29 marzo 2014

Giappone: Iwao Hakamada libero dalla condanna a morte - perchè innocente - dopo 48 anni nel braccio della morte.


Comunicato 
per la liberazione 
del sig. Iwao Hakamada
dopo 48 anni di prigionia nel braccio della morte.

Per un livello più alto 
e più umano dell'amministrazione della giustizia in Giappone
La Comunità di Sant'Egidio accoglie con gioia la notizia della liberazione del sig. Iwao Hakamada avvenuta il 27 marzo, dopo 48 anni di prigionia nel braccio della morte. Esprimiamo tutta la nostra vicinanza e amicizia sia verso di lui sia verso la sorella signora Hideko, con la quale la Comunità di Sant'Egidio ha organizzato incontri e conferenze sui diritti umani e la pena di morte, anche più specificatamente sull'ingiusto caso di condanna del sig. Iwao Hakamada. 

La Comunità di Sant'Egidio infatti da molti anni segue sia in Europa sia in Giappone stesso questo caso che ha toccato il cuore di milioni di persone di tutto il mondo, promuovendo una profonda riflessione sul senso della giustizia e sull'assurdità della condanna a morte. 
Questa liberazione, dopo tanti anni, costituisce motivo di una riflessione ed impegno ad una maggiore responsabilità, grande lavoro umano e sociale per la moratoria della pena di morte in Giappone, e in ogni Paese del 

Nessuno Stato ha il diritto di togliere la vita a nessuno, tanto più a chi è innocente, com'è il caso riconosciuto da decennni del sig. Hakamada.

Mentre auguriamo a lui la salute, lo sosteniamo con l'amicizia, auspichiamo che la riapertura del processo sul suo caso porti a pieno riconoscimento della sua innocenza. Esprimiamo inoltre il nostro apprezzamento nei confronti del giudice (della Corte distrettuale di Shizuoka) Hiroaki Murayama, e ci auguriamo che il suo esempio possa essere seguito da molti rappresentanti della magistratura e delle autorità della giustizia governativa.

Noi della Comunità di Sant'Egidio rinnoviamo e rafforziamo il nostri impegno democratico per il riconoscimento dei diritti umani e per un livello più alto e più umano dell'amministrazione della giustizia in Giappone.

http://nodeathpenalty.santegidio.org/en/news-57/japan-santegidio-community-press

giovedì 27 marzo 2014

La pena di morte diventerà un ricordo del passato

Ginevra, al Congresso Mondiale della World Coalition Against the Death Penalty
Secondo il rapporto annuale di Amnesty International sulla pena di morte, Iran e Iraq hanno determinato un profondo aumento delle condanne a morte eseguite nel 2013, andando in direzione opposta alla tendenza mondiale verso l'abolizione della pena di morte. Allarmanti livelli di esecuzioni in un gruppo isolato di paesi, soprattutto i due mediorientali, hanno determinato un aumento di quasi 100 esecuzioni rispetto al 2012, corrispondente al 15 per cento.    

"L'aumento delle uccisioni cui abbiamo assistito in Iran e Iraq è vergognoso. Tuttavia, quegli stati che ancora si aggrappano alla pena di morte sono sul lato sbagliato della storia e di fatto sono sempre più isolati", ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. "Solo un piccolo numero di paesi ha portato a termine la vasta maggioranza di questi insensati omicidi sponsorizzati dallo stato e ciò non può oscurare i progressi complessivi già fatti in direzione dell'abolizione". Il numero delle esecuzioni in Iran (almeno 369) e Iraq (169) pone questi due paesi al secondo e al terzo posto della classifica, dominata dalla Cina dove, sebbene le autorità mantengano il segreto sui dati, Amnesty International ritiene che ogni anno siano messe a morte migliaia di persone. L'Arabia Saudita è al quarto posto con almeno 79 esecuzioni, gli Stati Uniti d'America al quinto con 39 esecuzioni e la Somalia al sesto con almeno 34 esecuzioni.

Escludendo la Cina, nel 2013 Amnesty International ha registrato almeno 778 esecuzioni rispetto alle 682 del 2012. Nel 2013 le esecuzioni hanno avuto luogo in 22 paesi, uno in più rispetto al 2012. Indonesia, Kuwait, Nigeria e Vietnam hanno ripristinato l'uso della pena di morte.    Nonostante i passi indietro del 2013, negli ultimi 20 anni vi è stata una decisa diminuzione del numero dei paesi che hanno usato la pena di morte e miglioramenti a livello regionale vi sono stati anche l'anno scorso. Molti paesi che avevano eseguito condanne a morte nel 2012 non hanno continuato nel 2013, come nel caso di Bielorussia, Emirati Arabi Uniti, Gambia e Pakistan. Per la prima volta dal 2009, la regione Europa - Asia centrale non ha fatto registrare esecuzioni.    

Trent'anni fa, il numero dei paesi che avevano eseguito condanne a morte era stato di 37. Il numero era sceso a 25 nel 2004 ed è ulteriormente sceso a 22 l'anno scorso. Nell'ultimo quinquennio, solo nove paesi hanno fatto ricorso anno dopo anno alla pena capitale. "Il percorso a lungo termine è chiaro: la pena di morte sta diventando un ricordo del passato. Sollecitiamo tutti i governi che ancora uccidono in nome della giustizia a imporre immediatamente una moratoria sulla pena di morte, in vista della sua abolizione", ha concluso Shetty. In molti paesi che ancora vi ricorrono, sottolinea il rapporto di Amnesty International, la pena di morte è circondata dal segreto e in alcuni casi le autorità neanche informano le famiglie e gli avvocati, per non parlare dell'opinione pubblica, sulle esecuzioni in programma.

mercoledì 26 marzo 2014

Buone notizie! Mamme fuori dal carcere, due bambini nati liberi


"Un bambino non dovrebbe mai vedere detenuta la propria mamma" dice così don Virgilio Balducchi, Ispettore generale dei cappellani delle carceri, che ha "inventato" un progetto che ha permesso a 13 mamme di scontare la pena in strutture di accoglienza con i loro bambini. La legge lo consente, ma ci sono donne che sono prive di alloggio e di sostegni all'esterno. Ora Il sogno di rendere liberi i bambini insieme alle loro madri comincia a realizzarsi. e intanto due bambini sono nati liberi! Il progetto è un segno tangibile di vicinanza della Chiesa italiana alle madri che vivono in carcere. All’iniziativa collaborano in modo continuativo la Comunità Sant’Egidio e la Comunità Papa Giovanni XXIII. 


da Avvenire del 26 marzo 2014

Un bambino non dovrebbe mai stare dietro le sbarre di un carcere. Senza vedere il cielo, senza sapere cos’è un orizzonte. E, possibilmente, non dovrebbe mai vedere detenuta la propria mamma. Partendo da questi due semplici assunti è nato da un anno un progetto di accoglienza per le mamme carcerate con prole e senza dimora, pensato e realizzato dall’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri, dalla Caritas italiana e dalla Fondazione Migrantes.

I dati del Ministero sulla popolazione carceraria, al 31 dicembre 2013, registrano 43 madri detenute, 45 bambini con meno di tre anni e 22 detenute in gravidanza. 

«Va precisato – spiega il responsabile nazionale dei cappellani, don Virgilio Balducchi – che la legge prevede gli arresti domiciliari, meno che in caso di reati molto gravi, per la madre con un bimbo di età inferiore ai sei anni». Tuttavia restano penalizzate le donne che non hanno una residenza, in genere le rom, le immigrate e alcune italiane senza dimora. Il servizio si propone di accogliere ed ospitare, per periodi medio-lunghi, donne che hanno i requisiti per usufruire di misure alternative alla detenzione, ma che non possono accedere ai benefici previsti dalla legge perché prive di adeguato domicilio legale.


«La situazione carceraria nel nostro Paese – prosegue don Balducchi – conosce una crisi ormai di dimensioni strutturali. A fronte di una legislazione tra le più avanzate in ambito europeo, permangono criticità di ordine organizzativo e gestionale, nonostante l’impegno dei vari soggetti istituzionali, delle associazioni e di quanti lavorano all’interno delle carceri». Per rispondere al dettato evangelico che richiama al rispetto della persona umana in qualsiasi condizione di vita si trovi e per tentare di dare applicazione all’articolo 27 della Costituzione è nato nel settembre 2012, dopo un previo accordo con il capo del Dap, Giovanni Tamburino, il progetto "mamme con prole".

«Abbiamo avviato – puntualizza il responsabile dei cappellani carcerari italiani – un’indagine conoscitiva, attraverso i cappellani che ha rilevato diversi casi sul territorio. Nel contempo sono state individuate 32 strutture sul territorio disponibili all’accoglienza». Ma non basta, occorre la volontà delle interessate.

«C’è chi ha magari altri figli e può avere interesse a rimanere in carcere per non perdere i contatti. Comunque, dopo aver incrociato i dati in nostro possesso con i dati inviatici dal Dap, sempre attraverso i Cappellani si è provveduto ad un primo intervento conoscitivo della volontà da parte delle donne con prole ad essere accolte in una struttura di accoglienza». Rilevato l’interesse di 20 donne, il Progetto è stato proposto alla Cei per finanziarlo.


«Superata la difficoltà di individuare le donne – spiega don Francesco Soddu, direttore della Caritas italiana – abbiamo presentato il progetto alla presidenza della Cei. Non mi è stata fatta nessuna domanda e nessuna obiezione. Hanno colto subito la ricchezza del progetto, la prospettiva e il lavoro d’insieme». Ogni donna con bambino costa per questo progetto 30 euro circa al giorno contro i quasi 115 del carcere stimati da uno studio della scorsa estate della  polizia penitenziaria. 

«Nel febbraio 2013 – prosegue Soddu – la Cei ha disposto di stanziare un fondo di 200mila euro annui, per due annualità, per un totale di 400mila euro, da destinarsi come contributo per l’accoglienza delle ospiti presso le strutture disponibili. Il contributo prevede un rimborso giornaliero di 30 euro anticipato, di tre mesi in tre mesi per un anno, nell’ipotesi di permanenza dell’ospite presso la struttura allo scadere di ogni trimestre. Il Progetto vuole porre un segno tangibile di vicinanza della Chiesa italiana alle madri che vivono in carcere per offrire, a chi non ha possibilità proprie, un luogo di accoglienza per il loro vissuto materno». All’iniziativa collaborano in modo continuativo, anche la Comunità Sant’Egidio e la Comunità Papa Giovanni XXIII. L’intervento è divenuto operativo a partire dal 1 marzo 2013. Dopo un anno sono state accolte 13 donne con bambini su 50 posti e due donne hanno partorito, allattato e svezzato i loro neonati in queste comunità e non dietro le sbarre.

Che futuro ha questo progetto?
«Siamo a metà – spiega ancora don Soddu – ma c’è ancora da lavorare. Il bilancio è buono, abbiamo ospitato una dozzina di donne e l’aver lavorato insieme è stata una grande cosa. Vogliamo comunque ripresentarlo nel 2015 se ce ne sarà le necessità». Finora due bambini sono nati liberi e 12 mamme stanno ritrovando se stesse. E, soprattutto, i piccoli stanno imparando ad apprezzare il cielo che scende  fino all’orizzonte.

Paolo Lambruschi

http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/mamme-e-bambini-in-carcere.aspx

Egitto: la Chiesa è sempre contro la pena di morte, lo dichiara il vescovo copto cattolico di Assiut

Assiut (Agenzia Fides) – “La situazione è complessa. C'è la durezza di un giudizio, che non è definitivo, e occorre aspettare. In ogni caso, la Chiesa è contro la pena di morte. Dal punto di vista della coscienza cristiana, la condanna capitale non può mai rappresentare la strada per risolvere i problemi in modo giusto”. 

Così si esprime il Vescovo copto cattolico di Assiut, Kyrillos William, in merito alle 529 condanne a morte emesse contro i sostenitori dei Fratelli Musulmani da parte della Corte di Minya. Le condanne sono state emesse dopo soltanto due udienze, e sono state sottoposte al Gran Mufti d'Egitto che ha il compito di ratificarle o respingerle. “Molti”, spiega Anba Kyrillos all'Agenzia Fides, “dubitano che il Gran Mufti confermerà le condanne. Già in altre occasioni i giudici che hanno emesso la sentenza si erano distinti per aver comminato pene durissime. In molti chiedono che siano prese pene esemplari contro le violenze settarie. Ma la pena di morte non può rappresentare la soluzione”.

I condannati sono accusati di vari delitti, tra cui l'omicidio. La condanna è stata definita “sproporzionata e inaccettabile”, da uno degli avvocati difensori, Mohammed Zarie, a capo di un centro per la tutela dei diritti umani al Cairo. (GV) (Agenzia Fides 25/3/2014).

http://www.asca.it/news-Egitto_Onu_condanna_a_morte

Comitato Diritti Umani: appello perché l'Egitto applichi la risoluzione dell'Assemblea Generale dell'ONU per una Moratoria Universale

Dal Parlamento italiano un appello a che la pena di morte venga esclusa dalle sanzioni che possono colpire le opposizioni politiche in Egitto e perché l'Egitto applichi la Risoluzione dell'Assemblea Generale dell'ONU per una moratoria universale delle esecuzioni sulle condanne definitive. "Sono profondamente preoccupato per la stessa possibilità di una riconciliazione nazionale - conclude in una nota Marazziti -se sentenze come queste non vengono rapidamente
annullate e se la vendetta politica di massa -anche per via legale - diventa il modo in cui l'Egitto intende ridurre la violenza nel Paese e superare la critiche ha portato alla deposizione del presidente Morsi".



Il testo integrale del comunicato:


EGITTO: 529 Condanne a Morte di Sostenitori di Morsi, Fratelli Musulmani, 387 in Contumacia. Una sentenza senza precedenti e inaccettabile per un Paese che vuole essere un partner internazionale nel Mediterraneo. Inaccettabile la vendetta politica di massa. Una prova in più di come la pena di morte va abolita a livello mondiale.

"Non si ricordano precedenti di una giustizia così sommaria e violenta da parte di uno stato in epoca contemporanea - afferma Mario Marazziti, presidente del Comitato Diritti Umani della Camera dei Deputati e Coordinatore della Campagna mondiale della Comunità  di Sant'Egidio contro la pena capitale. Il fatto che il 24 marzo 2014 la Corte Penale di Minya, nel Sud Egitto, ha comminato per l'assalto alla stazione di polizia di Matay nel 2013, in cui e' stato ucciso un poliziotto, e durante il quale sono state sequestrate armi e liberati prigionieri rischia di marchiare negativamente il processo di riconciliazione nazionale e di riforma costituzionale avviata in Egitto allontanando drammaticamente i tempi di un Egitto pluralista e democratico.

Le modalità che hanno portato a una sentenza così grave e che coinvolge centinaia di posizioni e responsabilità diverse risultano anche a un esame superficiale imbarazzanti. Due sole udienze in un arco di tre giorni; il divieto per la difesa di accedere all'aula nella seconda udienza; il divieto per gli imputati ad essere ascoltati e a presenziare all'udienza e meno di un'ora per la sentenza finale.

Oggi e' previsto un altro processo che coinvolge 700 imputati per identici reati, legati alle proteste di massa contro i processi militari del novembre 2013. E c'e' il rischio di un'altra sentenza "monstre". 

Dal Parlamento italiano inviamo un appello a che la pena di morte venga esclusa dalle sanzioni che possono colpire le opposizioni politiche in Egitto e perché l'Egitto applichi la Risoluzione dell'Assemblea Generale dell'ONU per una moratoria universale delle esecuzioni sulle condanne definitive."

"Sono profondamente preoccupato per la stessa possibilità di una riconciliazione nazionale - conclude in una nota Marazziti -se sentenze come queste non vengono rapidamente annullate e se la vendetta politica di massa -anche per via legale- diventa il modo in cui l'Egitto intende ridurre la violenza nel Paese e superare la critiche ha portato alla deposizione del presidente Morsi.




martedì 25 marzo 2014

Preoccupazione per le condanne a morte in Egitto



Più di 500 partigiani del presidente islamista Mohamed Morsi, destituito dall'esercito, sono stati condannati a morte per le violenze commesse la scorsa estate.  
Dei 529 condannati alla pena capitale, fin dalla seconda udienza del processo aperto sabato scorso a al-Minya, a sud del Cairo, solo 153 sono attualmente in stato di detenzione. 
La Comunità di Sant'Egidio esprime preoccupazione per una condanna così estrema.  Una pena durissima che, associata al numero così alto di condannati, induce a chiedere clemenza e a sperare che presto tale decisione venga modificata o mitigata. 



Opg di Aversa: festa con Sant'Egidio, cinque anni di solidarietà

"Grazie della giornata e salutateci Roma!" 

Domenica di festa per gli internati dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa organizzata per il quinto anno consecutivo dalla Comunità di Sant'Egidio per regalare momenti di festa e di solidarietà agli internati. Come da tradizione hanno partecipato oltre 30 persone delle Comunità di Sant'Egidio di Napoli, Aversa e Roma, ma anche da Pescara. 

Canzoni romane e napoletane, intervallate da poesie recitate dagli internati che si sono esibiti anche cantando o suonando la chitarra. Molto applaudite le interpretazioni di "Margherita" di Riccardo Cocciante e "La distanza di un amore" di Alex Baroni. 

Agli internati sono state regalate felpe, sapone, biancheria intima e dentifrici, distribuiti anche a chi non ha partecipato alla festa dai volontari che hanno fatto una visita in tutti i reparti della struttura. 

Un ricco buffet, offerto da generosi ristoratori della zona di Aversa ha completato la festa alla quale hanno presenziato il vescovo di Aversa
monsignor Angelo Spinillo, Mario Marazziti, presidente della commissione diritti umani della camera, il direttore dell'Opg Elisabetta Palmieri, il commissario Mosca, comandante dell'istituto di pena e il Cappellano. 

Molti i romani presenti nell'Opg di Aversa, che attendono di essere dimessi e accolti nei percorsi terapeutici personalizzati e alternativi al ricovero. 

La chiusura degli Opg, prevista dal decreto del 1 aprile 2008, procede purtroppo a rilento. Le Regioni hanno chiesto una ulteriore proroga di tre anni, che è attualmente in discussione.  Questo tempo serve per organizzare l'accoglienza in strutture sanitarie alternative che non sono ancora pronte. Intanto il numero degli internati è ridotto rispetto al passato, cinque anni fa infatti gli ospiti della struttura erano quasi 350, a fronte dei 143 di oggi.

Le cause dei ritardi della sono molteplici: molti internati provengono direttamente dal circuito penitenziario, per cui le carceri invece di rieducare producono malattia mentale. Inoltre si registra un forte disagio psichiatrico nella società a cui dovrebbe corrispondere un potenziamento dei Dsm (dipartimenti salute mentale) che non riescono a dare risposte sufficienti e non sono ancora in stretto collegamento operativo con le carceri. 


Al termine il direttore del carcere ha voluto ringraziare la Comunità di Sant'Egidio per l'amicizia e la familiarità che di anno in anno in anno si va consolidando con gli amici dell'Opg.

Ma l'amicizia per Sant'Egidio non è solo vicinanza e aiuto, ma accende speranze e il desiderio che davvero presto l'Opg sia definitivamente chiuso e che per ogni internato ci sia accoglienza in case famiglia o in strutture di cura dignitose e umane. 

http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/festa-per-i-detenuti-comunita-di-santegidio

Hanno offerto il buffet le pasticcerie e i caseifici Pisciottaro - Schiavo - Caseificio Stella Alpina -  Antico Forno Cavallaccio - Trentola Ducenta - Casearia Sant’Antimo.

sabato 22 marzo 2014

Il coraggio dell'amore cristiano contro la violenza. La testimonianza di Tamara Chikunova


Il coraggio dell'amore cristiano contro la violenza. Un convegno ecumenico regionale a Sacrofano, con evangelici, cristiani e ortodossi. 

Le testimonianze di Mobeen Shahid su Shahbaz Bhatti e dell'uzbeka Tamara Ivanova Chikunova 

di Mariaelenea Finessi

http://www.romasette.it/id=12396

Se dalla terra è difficile estirpare la violenza innervata sullo smarrimento di un orizzonte di senso, su un relativismo etico e a cui fa da cassa di risonanza un sistema mediatico che rincorre la morbosità dei dettagli, il colore acceso del sangue e i toni verbali dell’ingiuria, ad essa però si può provare a dare una risposta. Ed è quello che cercano di fare i cristiani attingendo alla propria eredità spirituale. Per fare il punto sul tema, la Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Conferenza episcopale del Lazio, presieduta dal vescovo di Sora-Aquino-Pontecorvo Gerardo Antonazzo, ha organizzato un convegno ieri, giovedì 20 marzo, a Sacrofano. Per il consueto incontro annuale, che ha coinvolto operatori pastorali e docenti delle scuole superiori, sono stati chiamati a confrontarsi evangelici, ortodossi e cattolici «per una lettura multilaterale di questo dramma», spiega monsignor Antonazzo che non nasconde come «spesso si produca violenza anche in nome di Dio». 

Donatella Pacelli, docente Lumsa, inquadra il fenomeno della violenza nell’attuale tessuto sociale, caratterizzato da «flussi contraddittori: da un lato, gli effetti della massificazione sono osservabili in ogni ambito della vita e, dall’altro, i rapporti sociali restituiscono un individualismo esacerbato». La risposta alla violenza può però essere affidata ai giovani: «Proprio i giovani, con le loro iniziative di volontariato, si stanno facendo vettore di una partecipazione a problemi concreti che incrociano il grande dibattito sui diritti umani». A queste iniziative, i media dovrebbero dare però visibilità «contrastando l’immagine di giovani che reagiscono al disagio assumendo come unica strategia di azione l’aggressività». 

Per Yann Redaliè, biblista e pastore protestante svizzero che insegna Nuovo Testamento alla Facoltà valdese di teologia di Roma, «la risposta cristiana alla violenza è nel comandamento “Amate i vostri nemici”, un invito a superare l’attesa di contraccambio personale. È il carattere non condizionato dell’amore offerto e richiesto e che deve tradursi in azioni concrete». Concorda Igumeno Andrea Wade, del Patriarcato di Mosca: «Occorre una teologia non teorica ma una fede vissuta». Due le testimonianze. La prima, del docente di Filosofia alla Lateranense Mobeen Shahid su Shahbaz Bhatti, il ministro per le Minoranze in Pakistan, unico cattolico del governo, ucciso nel 2011 in un
attentato per la sua difesa della cristiana Asia Bibi, condannata a morte per blasfemia. La seconda, di Tamara Ivanova Chikunova, cristiana ortodossa il cui figlio è stato condannato a morte dallo Stato uzbeko per un attentato mai commesso. «La sua voce - commenta monsignor Marco Gnavi, incaricato diocesano per l’ecumenismo e il dialogo - ha la forza e l’autorevolezza di una testimone di immenso dolore trasformato in coraggio di amore». Dopo la morte del ragazzo, Tamara, che nel perdono individua la chiave per disinnescare atteggiamenti e comportamenti delittuosi, ha infatti messo in piedi l’associazione «Mothers against death penalty and torture» e nel 2008 è riuscita a far abolire la pena di morte in Uzbekistan.

giovedì 20 marzo 2014

Libera Sakineh, una vasta campagna internazionale l'ha salvata dalla condanna a morte

Libera Sakineh, nel 2006 era condannata a morte. La sua vicenda commosse il mondo, una vasta campagna  internazionale ha aiutato a trasformare la sua condanna a morte in pena detentiva. La Comunità di Sant'Egidio insieme alle altre organizzazioni ha sostenuto la sua salvezza. Oggi torna libera, scarcerata per buona condotta, in un Iran dove tra la popolazione nascono speranze e iniziative in difesa della vita.



Sakineh Mohammadi-Ashtiani, condannata in Iran alla lapidazione e poi all'impiccagione, che non furono mai eseguite grazie a una mobilitazione internazionale senza precedenti, è tornata libera dopo otto anni di carcere in virtù di un'amnistia: a darne l'annuncio l'avvocato di Pordenone Bruno Malattia, che ha seguito il suo caso.

La clemenza è arrivata il 18 marzo - Il legale, che ha patrocinato il caso di Sakineh al Parlamento Europeo, ha precisato che "il provvedimento di clemenza è stato adottato ieri (martedì 18 marzo, ndr) in coincidenza con l'anno nuovo secondo il calendario iraniano" e che l'annuncio è stato dato da Mahamad Javad Larijiani, responsabile dei diritti umani in Iran e diffuso dalla stampa governativa iraniana (Pars News, Jane Jami, Tesermine).

Il caso Sakineh - Sakineh Mohammadi-Ashtiani, 47 anni, di Tabriz, nel nord-ovest dell'Iran, era stata condannata nel 2006, sotto la presidenza di Mahmud Ahmadinejad, alla lapidazione per adulterio, con sentenza poi sospesa nel 2010. Ma ha rischiato poi l'impiccagione in un processo per l'uccisione del marito. 
La donna è stata al centro di una campagna internazionale che portò alla commutazione della pena. Il caso di Sakineh era stato anche posto all'attenzione del Parlamento Europeo con la predisposizione di un dossier che documentava l'innocenza della donna e le violenze subite dall'avvocato Hutan Kia che in Iran l'aveva difesa. Fra i governi che si mobilitarono in suo favore anche quello italiano, con l'allora ministro degli esteri Franco Frattini.

lunedì 17 marzo 2014

Iran: un gruppo di studenti impedisce l'esecuzione di 15 condannati a morte

Un interessante articolo pubblicato sul New York Times ci apre a speranze nuove sulla possibile diminuzione di esecuzioni capitali in Iran. 

Misericordia e Social Media rallentano il Cappio in Iran

di THOMAS ERDBRINK





8 mar 2014
TEHERAN - Nato in una povera famiglia, in uno dei quartieri più desolati di Teheran, all'età di 17 anni Safar Anghouti aveva poco da guardare avanti al di là di una vita di lavoro con suo padre - frugare nella spazzatura per le strade della città per raccogliere bottiglie, lattine e quant'altro di valore.
Ma una cosa si poteva sempre dire di Safar Anghouti : era un talento con il coltello. I suoi amici dicevano che poteva immancabilmente colpire un bersaglio a 30 metri. Un giorno, sette anni fa, perse la calma e in un lampo il coltello volteggiò in aria, infliggendo una ferita mortale al collo di un rivale.
Mr. Anghouti fu rapidamente processato e condannato e  per questo, essendo in Iran, dove l'omicidio prevede la pena di morte anche per i minori, si trovò nel braccio della morte in una delle più grandi prigioni del paese.
Per la maggior parte dei detenuti iraniani - oltre 600 sono stati giustiziati lo scorso anno -  sarebbe stata la fine della storia, ma non per il signor Anghouti, che divenne il beneficiario di due tendenze in evoluzione nella società iraniana, un disgusto crescente per la pena capitale e la diffusione dei social media.
Secondo il sistema giudiziario islamico in Iran, i criminali condannati - anche assassini - possono comprare la loro libertà dalla famiglia della vittima. Grazie ad una straordinaria campagna di social media, la povera famiglia del signor Anghouti è stata messa in grado di fare il passo successivo raccogliendo i 50,000 dollari richiesti dai parenti della vittima. Dopo aver evitato il cappio tre volte, con appelli dell'ultimo minuto, il signor Anghouti, ora di 24 anni, deve essere rilasciato in qualunque giorno, una volta terminate le lente procedure burocratiche. 
"Tutte queste persone hanno considerato ingiusta l'esecuzione di qualcuno che ha commesso un errore, quando non aveva ancora l’età per ottenere la patente di guida", ha dichiarato Zahra, sorella di Mr. Anghouti. "Invece di applaudire alla vendetta, hanno pagato i soldi per salvare la vita di mio fratello".

domenica 16 marzo 2014

Sempre meno numerosi i Paesi che fanno giustizia con la pena di morte

Una interessante riflessione  pubblicata da Avvenire il 15 marzo scorso ci ricorda che, anche se a piccoli passi, sono sempre meno numerosi i Paesi che ritengono di far giustizia uccidendo uomini. Ma il cammino è ancora troppo lento. Come ha scritto un condannato a morte alla Comunità di Sant'Egidio: «... Grazie per essere stato mio amico. Grazie per il tempo della tua vita che mi hai dedicato. Sappi che è stata la tua amicizia a fare la differenza». Se anche gli Stati vogliono fare la differenza, non possono più permettersi un cammino troppo lento.


da “Avvenire”: troppo lento il cammino contro la pena di morte


15/03/2014

 
 Tiziano Resca


Due episodi accaduti negli ultimi giorni dovrebbero risvegliare qualche coscienza su una piaga che una parte del nostro mondo cosiddetto civile continua ad alimentare e che un'altra parte continua a condannare quasi solo a parole, come se non ci fossero alternative a quella “spiacevole necessità”. È una delle più orribili strade che una società moderna possa intraprendere: la condanna a morte. L'uccisione di un uomo “in nome della legge”.
Il primo caso arriva dagli Stati Uniti. Un nero oggi sessantaquattrenne è stato scarcerato dopo aver trascorso 26 anni nel braccio della morte. Era stato condannato alla pena capitale nel 1984, riconosciuto colpevole di omicidio. Una storia mai chiarita a fondo, nella quale – dice oggi qualcuno – spuntarono anche elementi dai contorni razzisti. Sbattuto nel braccio della morte nel 1988, ha trascorso gran parte della vita attendendo che si stagliasse davanti a lui la sagoma del boia. Martedì scorso un giudice ha ribaltato tutto e l'ha scagionato. Niente iniezione letale e ritorno a casa, dove l'uomo ha trovato ad attenderlo un adulto: suo figlio, quello che aveva lasciato ancora bambino. Pare che ora abbia diritto a 300mila dollari di rimborso per i trent'anni che gli sono stati rubati. Mille dollari per ogni mese passato faccia a faccia con la morte. Il suo caso non è l'unico: negli Stati Uniti negli ultimi 40 anni sono stati 144 i condannati alla pen a capitale riconosciuti innocenti dopo aver convissuto a lungo in una cella col fantasma del boia.
La seconda notizia è simbolizzata da una fotografia che arriva dall'Iran e che rappresenta il terrore sui volti di due ventenni mandati a morte per una rapina da pochi euro. In quel Paese – dice un rapporto diffuso da un'organizzazione umanitaria – lo scorso anno il boia ha colpito 687 volte, quasi il 20 per cento in più del 2012. Ciò che più fa riflettere è che la maggior parte di queste esecuzioni sono avvenute dopo l'elezione di Hassan Rohani, il presidente nel quale si confida per una riapertura al dialogo con l'Occidente.
Sono due episodi di questi giorni che potrebbero perdersi tra moltissimi altri simili. Perché nei 21 Paesi che ancora praticano la pena di morte ci sono – secondo Amnesty International – circa 680 esecuzioni l'anno. Con l'incognita della Cina, dove il ricorso al boia è tristemente facile ma per la quale non esistono dati attendibili.


Unico elemento che apre alla speranza: anche se a piccoli passi, sono sempre meno numerosi i Paesi che ritengono di far giustizia uccidendo uomini. I ripensamenti ci sono, ma il cammino è ancora troppo lento. Ha scritto un condannato a morte alla Comunità di Sant'Egidio, in prima linea anche nella battaglia per la vita – qualunque vita – e i diritti umani: «... Grazie per essere stato mio amico. Grazie per il tempo della tua vita che mi hai dedicato. Sappi che è stata la tua amicizia a fare la differenza». Se anche gli Stati vogliono fare la differenza, non possono più permettersi un cammino troppo lento.

giovedì 13 marzo 2014

"Un errore di gioventù" un libro ispirato alla storia vera di un condannato a morte

Elena Genero Santoro ci presenta il suo libro "Un errore di gioventù (0111 edizioni, 2014), ispirato alla storia vera di Luis Crawford, di cui è stata per otto anni l'amica di penna. 
La corrispondenza, iniziata attraverso la pagina del sito di Sant'Egidio www.santegidio.org, mostrò subito a Elena l'umanità di molti condannati chiusi nel braccio della morte e le loro terribili condizioni di vita. 
L'uomo venne ucciso con iniezione letale nel febbraio 2010. 

Scrivere a un condannato a morte è il primo passo per garantire i diritti vitali agli uomini e alle donne nei bracci della morte (death row) è rompere l’isolamento. Niente è inutile, gli sforzi di tutti sono preziosi, come scrivono molti condannati ai loro amici di penna, "tu hai fatto la differenza!".  
Nel sito abbiamo aperto una pagina sulla corrispondenza con i condannati a morte: sono entrati in contatto epistolare oltre 1000 condannati a morte degli Stati Uniti, della Russia, del Camerun, dello Zambia e dei Caraibi con altrettante persone da ogni paese del mondo. Ricevere una lettera fa piacere a tutti. Ancor più se questo può significare la possibilità di allacciare un'amicizia duratura e sincera, altrimenti impossibile.
http://www.santegidio.org/index.

“Tutto quello che viene penetra in queste tenebre diventa distorto e questo ha un effetto perverso sui rapporti con tutto e tutti. E’ difficile mantenere sentimenti umani, quando devo combattere la rabbia per le enormi umiliazioni che mi hanno inflitto. Condannare a morte un uomo è una cosa. Ma un’altra è chiuderlo tra mura di isolamento e segregazione, spogliarlo di qualsiasi autentica relazione umana, tagliarlo da tutto ciò che rende bello il suo mondo interiore, da tutto ciò che lo rende umano. Tutto quello che viene penetra in queste tenebre diventa distorto. Energie buone o cattive, la vita, la vita è come acqua, per sua natura tende a scorrere, e quando non può diventa stagnante. Il mio mondo interiore è fatto di tanti ricordi e tanti desideri, a cui non è dato di scorrere. Non ho altro modo per realizzarli che scrivere, disegnare, parlare durante le visite. Quindi non ho altra scelta che osservarli mentre si corrompono” . (Dalle lettere di un condannato a morte, Braccio della morte di Livingston, Texas, US, 2005).

Da un'intervista a Elena Genero:

"...Benché il caso giudiziario del condannato Luis Crawford non sia reale, io sono stata per otto anni l’amica di penna di un uomo ucciso con iniezione letale nel febbraio 2010. Ho scritto questo libro per fare conoscere la realtà della pena capitale e per dimostrare che la più parte delle persone rinchiuse in un braccio della morte non sono né mostri né bestie, ma esseri umani, anche se hanno sbagliato, hanno commesso degli errori gravissimi, e che nei decenni trascorsi a meditare chiusi in una cella, nutriti con cibo di pessima qualità a degli orari improbabili, possono aver formulato pensieri, pentimenti e conversioni che nessuno di noi cittadini liberi avrebbe nemmeno il tempo di intuire".

Il paese dove non si trova il boia. La pena di morte in Sri Lanka.


In Sri Lanka la pena di morte non viene praticata da trent’anni, ma c’è ancora nei codici e quindi serve che ci sia un boia, ma da quando quello che c’era prima è stato promosso non si trova un rimpiazzo, i tre che avevano avuto il suo posto si sono licenziati subito di seguito.




IL PATIBOLO SPAVENTA – Il dipartimento penitenziario ha nominato il terzo arrivato al concorso tra i 176 partecipanti per il posto di boia nazionale, dopo che i primi due hanno rifiutato l’onore. Poi lo ha addestrato per una settimana e infine gli ha mostrato il patibolo. A quel punto il neo-boia si è licenziato. Chandrarathna Pallegama, il sovrintendente alle carceri ha detto che l’uomo è rimasto sconvolto alla vista del patibolo e che  a questo punto al prossimo faranno prima vedere il patibolo e solo poi cominceranno l’addestramento.

LA PENA DI MORTE NON C’È - L’ultima esecuzione a Colombo l’hanno vista nel 1976, anche se poi hanno continuato a condannare a morte molti rei, fino a metterne insieme 400 nel braccio della morte. Nonostante ci sia chi invochi il ritorno delle esecuzioni il regime di Colombo non sembra intenzionato, pur accusato di uccisioni stragiudiziali e di aver massacrato i civili Tamil, il governo ci tiene all’immagine internazionale ed è cosciente dell’inutilità della pratica come deterrente.

UN IMPIEGO CHE NON PIACE - Il posto avrebbe quindi semplicemente lo scopo di riempire il mansionario, tanto che il boia precedente ha sempre e solo esperito compiti amministrativi, ma i colleghi ricordano che anche lui era molto inquietato dalla visione del patibolo.

mercoledì 12 marzo 2014

Riconosciuto innocente un uomo dopo aver trascorso 30 anni nel braccio della morte.

Glenn Ford

Scarcerato Glenn Ford dopo 30 anni trascorsi nel braccio della morte. Era innocente

di Beatrice Montini  
Luomo, 64 anni, era stato condannato in Louisiana alla sedia elettrica nel 1984. Si era sempre dichiarato innocente

Glenn Ford, 64 anni, è di nuovo un uomo libero. La Louisiana lo ha scarcerato ammettendo un clamoroso errore giudiziario dopo 30 anni. Glenn Ford ha trascorso quasi metà della sua vita nel braccio della morte. Da innocente, come ha continuato inesorabilmente a ripetere. E la sua storia riapre il dibattito sulla pena di morte negli Stati Uniti. Dal 1974 sono stati 144 i detenuti condannati alla pena capitale e rilasciati dopo una lunga prigionia, come racconta la pagina web dedicata alle loro storie, la «Innocent list» (la lista degli innocenti). Ma, come sottolineano i media Usa, nessun carcerato è mai rimasto nel braccio della morte così a lungo prima di essere riconosciuto innocente.
La storia
La storia di Glenn Ford inizia nel 1984 quando viene condannato a morte. Una giuria (di «soli bianchi», ci tengono a precisare gli osservatori) lo riconosce colpevole di avere ucciso un gioielliere, Isadore Rozeman, 56 anni, durante una rapina. Ford si dichiara innocente, giura di non essere coinvolto nell’omicidio, dopo il primo verdetto ricorre in appello più volte. Ma non viene ascoltato. incarcerato, viene trasferito nel braccio della morte - in attesa dell’esecuzione - ad agosto del 1988. Adesso un giudice della Louisiana lo ha scagionato sulla base di nuove informazioni che confermano la sua versione dei fatti. Il giudice, ha spiegato l’avvocato di Ford, ha riconosciuto che il processo è stato «compromesso da avvocati inesperti e dal fatto che alcune prove sono state dichiarate inammissibili, incluse informazioni fornite da un testimone». «Glenn Ford non avrebbe nemmeno mai dovuto essere arrestato: non ha partecipato e non era nemmeno presente durante la rapina», ha detto il giudice 
Di nuovo libero
«Come mi sento? - ha detto Glenn Ford dopo il rilascio - la mia mente va in mille direzioni diverse perché sono stato rinchiuso per quasi 30 anni per qualcosa che non ho mai fatto. E non posso tornare indietro e fare quelle cose che avrei potuto fare a 40 anni. Mio figlio era un bambino quando mi hanno arrestato, adesso è un uomo adulto con dei figli». Attualmente 83 uomini e due donne sono detenute nel braccio della morte in Louisiana Secondo la legge statale chi viene incarcerato ingiustamente ha diritto a un risarcimento di 25mila dollari per ogni anno passato in prigione. Ma con il tetto massimo di 25omila dollari (circa 180mila euro) a cui si aggiungo 80mila dollari (58mila euro) per la perdita di «opportunità di vita». Sarà questa la cifra che riceverà anche Glenn Ford.



La Cina introduce limiti all'applicazione della pena capitale

Il governo cinese ha annunciato l’intenzione di rivedere nell’arco del 2014 il codice penale, per ridurre il numero di reati soggetti a pena di morte. L’ultima operazione del genere è stata fatta nel 2011, quando i legislatori tolsero 13 reati dal novero di quelli passibili di pena capitale. 

Zang Tiewei
Zang Tiewei, direttore del Dipartimento criminale della Commissione affari legislativi, ha dichiarato in una recente conferenza stampa che il governo ha raccomandato alle corti giudiziarie di applicare la pena di morte con molta cautela. Ha aggiunto quindi che tale pena dovrebbe essere riservata in futuro soltanto a reati estremamente gravi. Deng Hui, deputato dell’Assemblea nazionale del popolo e professore alla Jiangxi University of Finance and Economics, ha suggerito a sua volta che sarebbe opportuno abolire la pena di morte per i reati di tipo economico.  “Questo genere di crimini” ha detto “sono diversi da quelli violenti. I primi mettono in pericolo la vita delle persone, mentre i secondi sono in massima parte violazioni contro la proprietà, di conseguenza dovrebbero avere punizioni 
differenti”. Ha inoltre aggiunto che per le frodi bancarie o di borsa, o per i crimini che turbano l'andamento dei mercati, 
la pena capitale è troppo pesante e, in sostanza, non necessaria. Intervenendo sulla questione, Wu Zongxian, professore di legislazione criminale alla Beijing Normal University, ha osservato che, senza ricorrere alla pena di morte, “è già sufficiente, per un truffatore, sottrargli in via definitiva la qualifica professionale per accedere al mondo degli affari”. In aggiunta – disquisisce ancora il professor Wu – il mantenimento della condanna a morte per i reati di tipo economico nuoce all’immagine della Cina, dal momento che nella grande maggioranza dei Paesi sviluppati per reati simili la pena capitale è stata già abrogata da tempo. Tutto questo però non vuol certo dire che la
Cina sia prossima ad abbandonare la pena di morte. Lo ha detto chiaramente un altro criminologo, il professor Han Yusheng della Renmin University of China, affermando che “nel nostro Paese non è fattibile pensare di eliminare la pena di capitale; il massimo che si può realisticamente fare è ridurne il campo di applicazione”. 

sabato 8 marzo 2014

Un appello per salvare la vita di Billy Jack Crustinger, condannato a morte in Texas




Billy Jack Crutsinger è stato condannato a morte dieci anni fa per omicidio. Le circostanze del suo arresto non furono a norma di legge, ma Billy rilasciò presto la sua confessione, mostrando una condotta quasi ingenua quando, subito dopo il terribile gesto, rinunciò alla sua difesa. Per questa ragione le scorrettezze avvenute furono poi ritenute secondarie.  

Billy ha avuto una vita triste e difficile. Nato in una famiglia povera e con molti problemi, fin 
dall'infanzia oltre alla povertà è stato accompagnato da molti lutti. E' rimasto solo dopo la morte dei suoi tre figli. 

Secondo il parere di molti Billy ha danni cerebrali forse dovuti all’alcol. La condanna a morte avrebbe dovuto tenere conto dei pareri espressi circa la sua piena capacità mentale. 

Ha recentemente ricevuto il rigetto del suo appello, probabilmente l’ultimo possibile, e sebbene non sia stata ancora fissata la data della sua esecuzione, si teme per la sua vita.

Il suo cuore, indurito da una vita difficile e dai molti lutti, non è certo sanato dalla rabbia e dalla solitudine della piccola cella del Polunsky Unit. Ma talvolta uno sguardo diverso su di sé può far emergere lati dell’animo rimasti prima sconosciuti anche a noi stessi. 

Billy ha scoperto attraverso la corrispondenza con tanti la bellezza di sentirsi meno solo. Nessun parente, nessun amico che fino ad allora si fosse occupato di lui se non in qualche rarissimo episodio. Negli anni Billy è diventato per tanti, dall’America all’Europa, un amico di penna fedele. Non ha studiato Billy, ma il suo linguaggio semplice sorprende per la profondità di certi suoi pensieri, per la costanza nel ricordare le difficoltà degli altri, per la ricerca di spiritualità. La forza dell’amicizia è penetrata anche nella sua cella.

Ecco alcuni stralci dalle sue lettere:
“Sorrido sempre quando leggo le tue lettere: mi rendono felice e pieno di gioia. Ti ho già detto che ti considero come la figlia che ho perso: sei stata l’angelo che Gesù mi ha mandato. Ti voglio bene.”

“Non ho perso la fede, no davvero: tu e i tuoi amici mi aiutate moltissimo a ricordarmi sempre il Suo amore per me.”

“Colpevoli o no, le persone nella vita a volte fanno scelte brutte: sono stato uno di questi e ho fatto una scelta davvero brutta. Ma sono comunque un uomo e un figlio di Cristo, che non mi castiga per sempre per ciò che ho fatto. Dobbiamo amarci e aiutarci, finché il nostro cuore sarà riempito di amore e gioia da Nostro Signore Gesù.”

“Ora ho cambiato il mio cuore in meglio: è la mia unica opportunità per rivedere i miei figli in cielo. Ho chiesto perdono a Gesù e nel mio cuore sento che mi ha ascoltato.” “Gesù mi sta portando in braccio”.

Appello Urgente per salvare la Vita di Bill Jack Crutsinger, Condannato a Morte in Texas
Billy è nel braccio della morte in Texas da oltre 10 anni. Ha 60 anni.
Paese: USA

http://nodeathpenalty.santegidio.org/it/appelli-urgenti/

Testo da inviare

Urgent Appeal Brought Out by the Community of Sant'Egidio to Save the Life of Bill Jack Crutsinger, Sentenced to Death

Your Excellencies 
Dear Governor 

I am writing to express my deep concern over a ruling that sentenced to death Mr. Bill Jack Crutsinger, in spite of the suspicion of mental impairments and the poor legal assistance which did not allow him to benefit from effective defense. He was also arrested without respecting the legal requirements. I urge you to intervene on his behalf to prevent this cruel and inhuman punishment from being meted out against him. 
I implore you to ensure that this cruel and inhuman sentence is not carried out. 
Respectfully Yours 
(signature and date)


Indirizzi:

bpp-pio@tdjc.state.tx.us

Texas Board of Pardons and Paroles: http://www.tdcj.state.tx.us/bpp/ 

Governor of Texas Rick Perry: http://governor.state.tx.us/contact/

Stati Uniti: "Condannato a morte come un cane, in America i detenuti sono schiavi"

Ray Jasper - Texas Death Row
di Paolo Mastrolilli
La Stampa, 7 marzo 2014

"Condannato a morte come un cane, in America i detenuti sono schiavi"

Il testamento choc di Ray Jasper, che sarà giustiziato il prossimo 19 marzo.

"Questa lettera potrebbe essere la mia dichiarazione finale sulla terra: il sistema giudiziario è davvero corrotto oltre ogni possibilità, se un prigioniero si rifiuta di lavorare lo chiudono in isolamento. Avete idea di che effetto ha questo sulla mente umana?"
"Intendo usare questa lettera come una specie di piattaforma, perché potrebbe essere la mia dichiarazione finale sulla Terra". Così comincia il documento inviato da Ray Jasper al sito Gawker, che sta facendo discutere l'America.
Nel 1998 Ray aveva 19 anni ed era stato condannato a morte per l'omicidio dell'impresario David Alejandro. Jasper non era quello che aveva materialmente ucciso, ma il responsabile aveva ammesso la sua colpevolezza e aveva ricevuto l'ergastolo. Ray invece era andato a processo come complice e aveva ricevuto la pena capitale. All'epoca aveva una figlia nata da poche settimane, che adesso ha 15 anni e va a scuola. Il 19 marzo, esauriti gli appelli, lui verrà giustiziato: "Lo stato del Texas ha deciso di uccidermi come un cane rabbioso. State parlando con un uomo che è stato giudicato indegno di respirare la vostra stessa aria".
Jasper scrive che "il sistema giudiziario è davvero corrotto oltre ogni possibilità di ripararlo. In base al Tredicesimo emendamento della Costituzione, tutti i detenuti in America sono considerati schiavi. Se un prigioniero si rifiuta di lavorare ed essere schiavizzato, lo chiudono in isolamento: avete idea di che effetto ha questo sulla mente umana?".
Ray continua così: "Le sentenze sono ormai fuori controllo. La gente riceve l'ergastolo per reati in cui non c'è stata violenza. Conosco un ragazzo di 24 anni che ha preso 160 anni di prigione per una rapina da 500 dollari, in cui nessuno fu colpito. È pura oppressione. Una moltitudine di giovani sono stati buttati via in questa generazione".
Secondo Jasper, "l'altra medaglia di questo problema è il mondo del business che fa soldi con i detenuti. Il punto non è la punizione per il crimine, ma i profitti. Le prigioni sono un'industria miliardaria, con 122 carceri che detengono quasi 2 milioni di persone. Ci sono compagnie che spiegano alle piccole città come aprire altri penitenziari rilancerebbe l'economia e creerebbe lavoro. Come possono queste persone favorire condanne che consentono la riabilitazione dei detenuti? Sarebbe un cattivo affare, e quindi la politica spinge per dare sentenze più lunghe".
Naturalmente Ray è contro la pena di morte: "Non la condivido. È una pratica del sud, che viene dall'antica mentalità del linciaggio. Quasi tutte le esecuzioni avvengono nell'America meridionale. La pena capitale va abolita. L'ergastolo è già una condanna a morte. Se deve esistere, la pena capitale è giustificata solo per omicidi di massa o atti terroristici. Pensate, ad esempio, che in Texas non ti condannano a morte per l'omicidio in sé, ma perché l'omicidio era associato ad un altro reato.
Che senso ha? Se hai ucciso non vieni giustiziato, ma se poi hai rubato i soldi dal portafoglio della vittima sì. Io, ad esempio, non sono stato condannato perché avevo ucciso, ma per la law of parties. L'omicida ha ammesso la colpa ed ha ricevuto l'ergastolo. Io sono responsabile anche delle sue azioni, come complice, ma solo io sono stato condannato a morte". Anche il sistema usato per le esecuzioni è inaccettabile: "L'iniezione letale viene dalle pratiche dei nazisti nell'Olocausto contro gli ebrei. Adottarla per uccidere le persone, quando è incostituzionale usarla per i cani, significa dire qualcosa di davvero crudele e inumano. Ma alla gente non importa, perché tanto vengono ammazzati esseri orribili".
Un altro problema, ovviamente, è la razza: "Io sono finito in prigione a 19 anni, e quando sono entrato ho pensato: non ho mai visto tanti neri in vita mia! Sembrava di essere arrivato in Africa. Come cantava 2Pac, i penitenziari sono colmi, riempiti di neri. È davvero un'epidemia. In larga parte è una crisi di identità. Noi neri non conosciamo la nostra storia. Veniamo da una cultura diversa dai bianchi, ma essendo schiavi, ci siamo persi. Abbiamo perduto le nostre radici. Pensiamo che la schiavitù sia la nostra radice".
Il punto finale della lettera di Jasper riguarda la religione: "Diversi predicatori in Texas e nel sud dicono che la pena di morte viene da Dio ed è sostenuta dalla Bibbia. Ma le esecuzioni sono un tema politico, non spirituale. I pastori che le sostengono predicano il male. Se Dio voleva che io morissi, lo avrebbe fatto già da tempo. Io ci parlo ogni giorno, e lui non mi dice che sono una minaccia da eliminare. Come spiegava San paolo, io sono il capo dei peccatori, ma Dio ha avuto pietà di me. Credere che qualcuno sia oltre la possibilità di redimersi è contrario all'intera fede cristiana".
L'ultimo pensiero è per la figlia: "Io sono un padre. Mia figlia aveva sei settimane quando fui rinchiuso, ora ne ha 15 e va al liceo. Nonostante le circostanze, ho cercato di essere il miglior padre del mondo. Sapevo che il corso della sua vita sarebbe stato determinato in larga parte da quello che le avrei insegnato. È così per tutti. Come diceva Aristotele, i miglioramenti nella società cominciano sempre con l'istruzione dei giovani. 
Con sincerità, Ray L. Jasper".
P.S. "Scusate la lunghezza della lettera, ma stavo parlando dal mio cuore".

mercoledì 5 marzo 2014

Amnistia e indulto, appello del presidente Commissione Diritti umani

Marazziti, Presidente Commissione Diritti Umani
Amnistia e indulto protagonisti della giornata politica e parlamentare con l'esame alla Camera dei Deputati del messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sull'emergenza  carceri. 

In Aula a Montecitorio spaccato il Pd di Matteo Renzi, no deciso a indulto e amnistia del Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, il sì convinto di Forza Italia di Silvio Berlusconi, Nuovo centrodestra e Per l'Italia. La disponibilità di Sel e Scelta civica. Il dibattito è in corso e oggi pomeriggio riprenderà in commissione Giustizia al Senato l'esame dei quattro ddl per amnistia e indulto mentre in piazza a Montecitorio prosegue la protesta dei Radicali italiani.

"Occorre, di fronte a un sistema di interventi organico, avere il coraggio di mettere a punto e approvare una legge di indulto e amnistia che può essere risolutiva, proprio perché abbiamo messo mano alle molte deformazioni che si sono sedimentate sul sistema carcerario". Lo dichiara Mario Marazziti, deputato dei popolari per l'Italia, Presidente del Comitato per i Diritti Umani della Camera.

"Amnistia e indulto - prosegue - non sono parolacce o, come vengono descritte, come un incoraggiamento all'illegalità e un colpo di spugna. Oggi possono aiutare la magistratura a ritrovare efficienza per l'annullamento di procedimenti penali non necessari e il sistema carcerario a ripartire da una fisiologia ritrovata. Occorre non farne materia di scontro ideologico o di rinnovati populismi. L'indulto del 2006, subito diventato un figlio disabile rinnegato dai molti padri che aveva fino a prima della nascita, è stato un successo. Ma i populismi e le approssimazioni ne hanno fatto un mostro. Eppure tra chi ha goduto dell'indulto i recidivi sono stati il 33 per cento, la metà di quanto scontano tutta la pena. E chi, tra quanti furono raggiunti dall'indulto, già godeva di benefici o misure alternative al carcere ha commesso reati cinque volte di meno di quanto scontano tutta la pena in carcere".