martedì 21 gennaio 2014

Troppi malati nelle carceri italiane. Serve uno studio epidemiologico sulle patologie più frequenti.

Da Avvenire, di Paolo Ferrario 

Se l’80% della popolazione di una città fosse malata, il sindaco ordinerebbe quanto meno una profilassi collettiva per arginare la trasmissione del virus. Ciò non avviene, invece, nel sistema carcerario italiano che, per dimensioni (64.758 i detenuti presenti al 30 settembre scorso), potrebbe benissimo stare tra i comuni italiani di medie dimensioni. In questa cittadina con le sbarre e circondata da alte mura, la concentrazione di malattie ha ormai abbondantemente superato il livello d’allarme, come confermano i dati che la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, ha recentemente consegnato al Parlamento.

«Sono anni che chiediamo al Ministero della Salute di attivare un Osservatorio nazionale sullo stato di salute dei detenuti – osserva Enrico Giuliani, consigliere della Simspe –. Soltanto così avremo la possibilità di effettuare un serio studio epidemiologico sulle patologie più sviluppate in carcere».


Le ultime stime dicono, appunto, che il 60-80% dei ristretti ha almeno una patologia e, per la maggior parte (48%), si tratta di malattie infettive. I tumori rappresentano l’1% circa di tutte le patologie e riguardano soprattutto linfomi, leucemia, neoplasie del polmone e neoplasie epatiche. «In genere – ricorda Giuliani, medico del carcere di Viterbo – questi pazienti sono curati negli ospedali e, dove esistono, vengono ricoverati nei reparti di Medicina protetta, come nel caso del “Belcolle” di Viterbo».

Un terzo dei carcerati (32%), ha problemi di tossicodipendenza, condizione che, stando agli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, riguarda 15.663 persone (di cui 4.864 stranieri). Al terzo posto tra le patologie più comuni tra i carcerati, ci sono i disturbi psichiatrici maggiori, che colpiscono il 27% della popolazione delle celle. Nella “classifica” della Simspe entrano quindi le malattie strettamente legate alla forzata inattività cui è costretto chi sta scontando un pena detentiva. Il 17% soffre di malattie osteorticolari, il 16% presenta patologie cardiovascolari, l’11% ha problemi metabolici e il 10% malattie dermatologiche, la cui trasmissione è favorita dall’alto tasso di sovraffollamento. Lo scorso anno è arrivato al 136%, pari a 17.143 detenuti presenti oltre la capienza massima di 47.615 posti letto offerta dai 206 istituti di pena presenti sul territorio nazionale.

L’affollamento delle celle aumenta il rischio di contagio da infezioni; quelle maggiormente presenti sono la tubercolosi (ne soffre il 22% dei detenuti), il virus Hiv (4%), l’epatite B (5%), l’epatite C (33%) e la sifilide (2,3%).

Migliorare le condizioni di «detenzione per adulti e minori», anche attraverso il «completamento del piano straordinario di edilizia penitenziaria», è quindi in cima alle priorità indicate dal ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, nella direttiva ministeriale per il 2014.




Per affrontare in maniera non estemporanea il problema della cura delle malattie in carcere, la Società dei medici penitenziari ha rivolto una serie di «istanze al legislatore». Tra le più urgenti, dopo l’Osservatorio, c’è l’adeguamento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) alle «specificità penitenziarie». Inoltre, i sanitari chiedono l’istituzione del «fascicolo sanitario elettronico nazionale, elemento sostanziale per creare ed integrare la continuità diagnostico-terapeutica territorio-carcere-territorio». E per evitare i casi come quello, denunciato dall’associazione Antigone, di Federico Perna, morto a Poggioreale (Napoli), l’8 novembre scorso ufficialmente per sospetto ictus. I compagni di cella raccontano però che «da una settimana sputava sangue», forse a causa della grave patologia epatica di cui soffriva da tempo. In carcere dal 2010, in tre anni Federico è stato detenuto a Regina Coeli (Roma), Velletri, Cassino, Viterbo, Napoli-Secondigliano e, infine, Poggioreale, dove è morto. Sul caso sono state aperte due inchieste, una amministrativa e una giudiziaria, ma non occorre attendere gli esiti per dire, con Antigone, che «questo girovagare tra gli Istituti di pena non ha giovato alla salute del detenuto».
Per evitare altri casi come questo, nel suo ultimo Rapporto, Antigone ha sollecitato la politica a creare le condizioni per una «tutela effettiva della salute» dei detenuti, «anche attraverso una figura che sia realmente intesa quale medico di fiducia». Un’opportunità ancora negata alla maggior parte dei carcerati.


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