venerdì 6 marzo 2015

Indonesia, dibattito sulla pena di morte: intervista a un boia

In Indonesia s'infiamma il dibattito riguardo alla pena di morte, con dozzine di prigionieri tuttora in attesa di venire fucilazione. Parla uno dei boia, che spiega in un'intervista le modalità di esecuzione, ed i sentimenti di chi sta dall'altra parte

da http://news.fidelityhouse.eu/

6 marzo 2015

In questi giorni sta accendendosi sempre di più il dibattito sulla pena di morte in Indonesia, a causa della controversa vicenda degli 11 prigionieri condannati alla pena capitale per reati inerenti allo spaccio ed al consumo di droga. In Indonesia, infatti, per i condannati per traffico di sostanze stupefacenti la legislatura locale prevede l’esecuzione. Tra i prigionieri in attesa del concretizzarsi della sentenza vi sono anche due australiani, un brasiliano ed un nigeriano. Il governo dell’Australia ha peraltro proposto uno scambio di prigionieri a quello indonesiano: i due cittadini accusati di spaccio, per due detenuti indonesiani attualmente reclusi nelle prigioni di Cranberra. Ma il Paese asiatico ha rifiutato categoricamente la proposta: per l’Indonesia, chi spaccia sul suo territorio deve venire giustiziato a prescindere dalla cittadinanza e dagli accordi diplomatici.


Ed è proprio per analizzare più a fondo la tematica della pena di morte, che il The Guardian ha deciso di intervistare uno dei poliziotti indonesiani incaricati di procedere alle esecuzioni, operante nella prigione di Nusa Kambangan.“Premere il grilletto è la parte più semplice” ha dichiarato l’agente, un ragazzo giovane, il cui nome non è mai stato menzionato nel corso delle trascrizioni per sua stessa volontà “Ma la parte peggiore, è il contatto umano, la connessione con quegli uomini che stanno per morire. L’esecutore ha il compito di legare mani e piedi alla vittima, è quel momento di brutale intimità che ti perseguita”.

Il ragazzo fa parte della cosiddetta Brimob, la Brigata Mobile, che ha come compito principale proprio quello di occuparsi delle esecuzioni. “Lo stress mentale è più forte per chi ha il compito di rimanere a contatto con i prigionieri, piuttosto che per quelli che sparano-ha continuato-perché sono proprio loro ad avere il compito di andare a prenderli, condurli sul posto e legarli, accompagnandoli fino al momento della morte”. Il luogo dove vengono eseguite le sentenze relative alla pena di morte, nell’isola-prigione di Nusa Kambangan, è una radura ai margini della giungla. Il procedimento prevede la cooperazione di due squadre, l’una incaricata di legare e scortare i prigionieri fino al luogo dell’esecuzione, e l’altra con il compito materiale di uccidere. Il poliziotto intervistato, secondo la sua testimonianza, ha fatto parte di entrambi i reparti.

I prigionieri possono richiedere un cappuccio sulla testa, per far sì che lo spavento per gli attimi che precedono gli spari non li faccia muovere, facendomancare così il bersaglio ai tiratori. Il perché è semplice: se i poliziotti sono in condizioni di mirare bene e non sbagliare il tiro, la morte sopraggiunge in fretta. In caso contrario, si allunga semplicemente l’agonia. “Non parlo con i prigionieri-continua il poliziotto, nel corso dell’intervista-ma li tratto come se fossero membri della mia famiglia. L’unica cosa che dico loro è "Perdonami, sto solo facendo il mio lavoro”.

Il poliziotto ha inoltre spiegato le modalità con la quale avviene tutto il processo: la squadra deputata all’esecuzione è composta da 12 membri della Brigata Mobile, posizionati a 10 metri di distanza dal condannato a morte. I fucili utilizzati per uccidere sono gli M16, e la maggior parte di quelli utilizzati dai poliziotti è caricato a salve, cosicché nessuno di loro possa effettivamente sapere chi sia stato a togliere la vita al prigioniero. I componenti di questa squadra vengonoaccuratamente selezionati in base alla loro abilità di tiro, ed al loro profilo psicologico.

A chi non fosse abituato a questo genere di pratica, il commento dell’intervistato a riguardo potrebbe risultare agghiacciante: “E’ semplice: noi arriviamo, prendiamo i fucili e spariamo. Quindi aspettiamo che sia morto. Una volta sentito il “bam” dell’arma, attendiamo circa 10 minuti. Se il dottore lo dichiara morto, facciamo ritorno”. Fine della storia. Una procedura oramai diventata parte della ruotine del membro della Brimob, nonostante la sua giovane età. “Di solito è finita in meno di cinque minuti-prosegue-vanno giù direttamente, perché non c’è più vita”. E nei rari casi in cui il prigioniero non muoia ed il dottore lo dichiari ancora vivo, uno degli ufficiali deve prendersi l’onere di sparargli un colpo direttamente in testa a distanza ravvicinata.

L’uomo liquida così la questione morale relativa alle sue mansioni di boia: “Sono legato al mio giuramento di soldato, i prigionieri hanno violato la legge e noi stiamo semplicemente eseguendo gli ordini. Siamo esecutori. La questione relativa al fatto che sia o non sia peccato, spetta solo a Dio”. Alla domanda se fosse disturbato in qualche modo dai ricordi delle esecuzioni, ha invece risposto così: “Qualsiasi cosa accada, non tiriamo mai fuori il discorso, perché è questo che significa essere parte della Brimob”. L’uomo ha inoltre reso noto che il plotone d’esecuzione, dopo la sentenza, ha diritto a tre giorni di recupero, durante i quali ogni membro riceve supporto sia psicologico, che spirituale.

Ma l’agente ha anche spiegato che fare il boia non è ciò che vuole fare per il resto della vita: “Spero di non continuare ad occuparmi di questo a tempo indeterminato. Ci sono ancora circa 50 prigionieri in attesa di essere giustiziati, quindi potrei essere chiamato ad uccidere ancora. Non sono felice di farlo…se ci sono altri soldati, che si lasci fare a loro”. Il Presidente indonesiano Joko Widodo ha infatti parlato recentemente delle dozzine di prigionieri in attesa della pena capitale, assicurando che non vi sarà clemenza per alcuno di loro.

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