da Avvenire del 4/5/2016
di Elena Molinari
In quest’anno verso le presidenziali dire no
alla morte di Stato non è più una posizione
suicida per un candidato:
per la prima volta da quarant’anni,
la maggior parte dei cittadini statunitensi
sono disposti a votare per un presidente
che rifiuti le esecuzioni
Il cubo, non più grande di un bagno pubblico, è interamente di cemento. Sulla parete esterna, a un metro e mezzo di altezza, si apre una piccola finestra con le sbarre, anche è fisicamente impossibile che un adulto possa passarci
attraverso. Nella parte bassa della massiccia porta d’acciaio una fessura permette l’entrata e l’uscita di vassoi di plastica. La cella al momento è vuota, pronta per il prossimo inquilino, e odora di antisettico, dal letto bianco al water di metallo in un angolo. Ma le altre 259 del braccio della morte del carcere texano Allan Polunsky, nei pressi di Livingston, sono costantemente abitate. Di solito, per quasi 23 ore al giorno. Sbirciando all’interno di quelle lasciate libere
durante l’ora d’aria, si vedono mensole ben ordinate, due o tre libri, qualche foglio di carta, una matita. E, sempre, una radio. «È per annegare i rumori del
carcere», spiega Kristin Houlé, direttore della Texas coalition against the death penalty, che accompagna i rari giornalisti permessi all’interno del braccio della
morte. La prigione, infatti, è un posto rumoroso. Nelle circa due ore fra il laborioso ingresso, la visita e la complicata uscita dal penitenziario, si è bombardati da ogni lato da una cacofonia irritante. Lamenti, lunghi e lugubri; sussurri, porte sbattute, cigolio di suole di gomma, tonfi sordi e persino urla di prigionieri che, viene da pensare, stanno perdendo la ragione.
I detenuti escono dalle celle dieci ore per settimana – spiega Houlé – da lì vengono portati in una gabbia più grande, con un recinto a catena, in cortile. Lì si esercitano da soli, ma perlomeno possono parlare con il detenuto nella gabbia vicina. Per non impazzire». Nella prigione all’interno della prigione che è il braccio della morte, i detenuti rimangono in media 11 anni, dal giorno della condanna fino all’alba in cui, esauriti tutti gli appelli, ricevono l’iniezione
letale: più di 4.000 giorni, tutti in isolamento. Alcuni ci restano di più, altri vengono uccisi prima da una malattia, dalla vecchiaia, da un altro detenuto. O si
tolgono la vita. Ma anche in questa inumana unità di segregazione c’è un barlume speranza. Lo assicurano, ripetutamente, i volontari che vi lavorano ogni giorno e lo scrivono i detenuti nelle lettere a familiari e avvocati.
Non è solo l’istinto umano di conservazione che rifiuta di soccombere alla sofferenza, bensì la convinzione che finalmente qualcosa, nel mondo là fuori, sta
cambiando, e che avrà un effetto profondo dietro le sbarre. L’anno scorso, negli Stati Uniti, ci sono state 27 esecuzioni: il minor numero dal 1991, in diminuzione da 35 nel 2014. È stato il settimo anno consecutivo di cali.
Ma c’è di più. Quando Jonathan Sanchez venne arrestato a Houston due anni fa per l’omicidio della 21enne Yosselyn Alfaro e di due adolescenti, pochi dubitavano che sarebbe stato condannato a morte. Dopo tutto il suo processo si sarebbe tenuto nella contea di Harris, che detiene il record di condanne a morte negli Stati Uniti. Invece la giuria ha deciso di risparmiargli l’iniezione letale, condannandolo all’ergastolo. Un risultato in contrasto con la reputazione del Texas, che è la capitale della pena di morte degli Stati Uniti, che a loro volta impiegano il boia con maggiore frequenza di qualsiasi altro Paese occidentale. Nel mondo, solo l’Iran, l’Iraq, l’Arabia Saudita e la Cina uccidono più prigionieri. Ma nel 2015, il Texas ha messo a morte "solo" 13 persone, rispetto a 40 nel 2000. Ancora più sorprendente, i tribunali dello Stato hanno inflitto tre condanne alla pena capitale per l’intero anno, il numero più basso da quando il Texas ha reintrodotto la pena di morte nel 1976. Dallas, Harris e Tarrant, le tre contee responsabili per circa la metà della popolazione del braccio della morte texano, non hanno condannano una sola persona a morte l’anno scorso.
Le contee responsabili per circa la metà della popolazione del braccio della morte texano, non hanno condannano una sola persona a morte l’anno scorso.
Non sono casi, ma una tendenza. Esoneri di alto profilo come quello di Anthony Graves, che ha trascorso quasi due decenni nel braccio della morte dopo essere stato ingiustamente accusato di aver ucciso sei persone, hanno seminato dubbi sull’equità del sistema penale americano, hanno portato alla luce grosse disparità razziali nelle condanne e alla fine hanno avviato una riflessione, locale e nazionale.
Quattro delle sette giurie texane alle quali i pubblici ministeri avevano richiesto una condanna a morte lo scorso anno hanno optato per una pena minore. E, nei
sondaggi, più della metà degli americani ha sostenuto che farebbe lo stesso. Una moratoria spontanea incoraggiata dall’austerità finanziaria: in un clima di
bilanci statali in rosso, le procure sono restie ad avviare casi capitali che, con i loro appelli interminabili e l’utilizzo di avvocati d’ufficio, finiscono con l’essere
enormemente costosi. La svolta è più marcata dal 2005, quando una legge statale ha istituito in Texas l’ergastolo senza condizionale, offrendo ai giurati la
possibilità di infliggere una punizione estremamente severa alternativa alla morte.
La prospettiva di una vita in carcere è crudele, ma gruppi come la Coalition against the death penalty lo considerano un passo avanti. «In questo momento è il male minore, soprattutto a causa delle condizioni di detenzione. Gli ergastolani non passano anni in isolamento come i condannati a morte», spiega Houlé.
Nel caso dell’ergastolo, inoltre, il sistema giudiziario ha ovviamente la capacità di correggere i suoi inevitabili errori, una considerazione che sta spingendo un
crescente numero di Stati americani ad abolire la pena capitale: 19 finora, sette dei quali dal 2007. Non si può negare che la maggioranza degli americani difende ancora il ricorso al boia. Ma, in quest’anno elettorale, dire no alla morte di Stato non è più una posizione suicida per un candidato: per la prima volta da quarant’anni, la maggior parte dei cittadini statunitensi sono disposti a votare per un presidente che rifiuti la pena capitale.
Emergere dal cancello del carcere Allan Polunsky e sentire la brezza primaverile sulla pelle provoca un’eruzione quasi colpevole di gioia, seguita dall’incredula ammirazione nei confronti di chi, rinchiuso fra quelle mura da 13 anni, continua ancora a sperare. «So che la pena di morte verrà abolita – ha scritto in una lettera a un volontario Pete Russell, detenuto di 43 anni –. Se la gente onesta di questo Paese lo esigerà, verrà abolita. Con il tempo e per volontà di Dio».
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