da Le persone e la dignità
di Riccardo Noury
L’efferato omicidio della 20enne Özgecan Aslan ha acceso il dibattito sulla pena di morte in Turchia, il primo paese a maggioranza musulmana ad aver definitivamente abolito la pena capitale, ormai 21 anni fa, e nel quale l’ultima esecuzione ha avuto luogo nel 1986.
Convinta che invocare la pena di morte in casi come quello dell’uccisione di Özgecan Aslan porti nell’immediato un discreto consenso popolare – magari utile alle successive elezioni – la ministra della Famiglia e delle Politiche sociali Aysenur Islam è stata sollecita nel chiederne il ripristino.
Ma, come sottolinea Ceylan Ozbudak, analista politica, presentatrice televisiva e direttrice esecutiva dell’Ong istanbulita “Costruire ponti”, anche se il corpo straziato di Özgecan Aslan provoca una tentazione di vendetta difficilmente frenabile, occorre pensarci non due ma tre volte prima di trasformare le emozioni in legge dello stato.
Contro il ripristino della pena di morte, Ozbudak cita le risposte date dai capi di polizia della Turchia quando è stato chiesto loro di indicare “il principale fattore per ridurre il crimine violento”.
Ecco le risposte: più agenti di polizia, riduzione del consumo di droga, maggiori posti di lavoro, un’economia in crescita, pene detentive più lunghe. La pena di morte è stata citata nell’1 per cento delle risposte. Il 57 per cento degli intervistati haconvenuto che la pena di morte serve a poco per prevenire il crimine, poiché è raro che gli autori riflettano sulle conseguenze delle loro azioni prima di portarle a termine.
Come se non bastasse la contrarietà sul piano utilitaristico, ecco le parole del padre di Özgecan Aslan:
“Può anche essere che se tornasse la pena di morte qualcuno verrebbe dissuaso, ma non è la soluzione. Invece, le persone dovrebbero imparare a controllarsi”.
Nessuno nasce criminale, ma può crescere in un ambiente che, anziché insegnargli a controllarsi, lo induca a diventare un assassino.
Come un ambiente nel quale la vita delle donne vale poco più di zero e in cui le decisioni sui loro desideri e sui loro corpi, sulla loro libertà e sui loro diritti, appartengono ad altri. Allo stato e alle sue leggi, ai parenti e al loro “onore”, alla società e alle sue tradizioni. Agli uomini.
È in quell’ambiente che, nel 2014, sono aumentati del 40 per cento gli omicidi di donne. È in quell’ambiente che sono nati e cresciuti Özgecan Aslan e il suo assassino Suphi Altindoken.
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