mercoledì 26 febbraio 2014

Libri: di Adriano Prosperi "Delitto e perdono. La pena di morte nell'orizzonte mentale dell'Europa cristiana. XIV-XVIII secolo"



Pubblichiamo l'intervista di Giacomo Mori a Adriano Prosperi sul suo ultimo libro: “Delitto e perdono. La pena di morte nell'orizzonte mentale dell'Europa cristiana. XIV-XVIII secolo". 

Di cosa parla il suo libro? 

Il libro parla della storia dei rapporti tra cristianesimo e pena di morte nella tradizione europea e soprattutto nella tradizione italiana, del modo in cui, nel corso della sua storia, l’etica cristiana ha fatto i conti con l’amministrazione della pena capitale che un tempo era considerato un metodo normale di gestione dell’ordine pubblico. 

Ho letto da qualche parte definirlo “la storia della cristianizzazione della pena di morte”, si trova d’accordo con questa affermazione? 

Sì. Innanzitutto, la religione ha spesso rappresentato la base su cui si è sorretta la gestione dello spettacolo della pena di morte, come spettacolo funzionale al potere. La figura del condannato a morte, che viene esecrato e rifiutato sino a morire tra sofferenze atroci, si trasformò, grazie all’opera dei confratelli delle compagnie di giustizia, in un pentito che aspira a diventare santo e che in certi casi, addirittura, finisce per diventare santo nell’opinione pubblica. Queste compagnie di giustizia, legate alla Chiesa, nacquero sistematicamente in tutte le città italiane, anche nei piccoli centri, e crearono un modello di organizzazione della pena capitale che poi si è diffuso nel resto d’Europa portando, appunto, a una vera e propria cristianizzazione della pena di morte. Questa sorta di mediatori si assumevano il compito di gestire il conforto del condannato nelle sue ultime ore di vita, affinchè esso, tramite il patimento della morte, potesse riscattare, non la sua vita terrena che ormai non contava più, bensì la sua vita eterna, ultraterrena. In cambio del suo pentimento e del fatto che lui si assuma, volentieri, il compito di morire, il condannato si garantisce dunque, anche la sentenza favorevole del tribunale divino, quella più importante, che poi gli garantirà la vita eterna in paradiso. 

Ricorda la parabola del buon ladrone. 

Esattamente, il modello di riferimento è appunto l’episodio del buon ladrone, colui che sulla croce, accanto a Cristo, ottiene da lui la promessa del paradiso. Questo è un punto dei Vangeli che viene continuamente usato e citato dai confratelli delle compagnie di giustizia. L’opera dei confratelli, tuttavia, non funge soltanto da attività di conforto nei confronti di colui che si prepara a morire, ma rappresenta anche la legittimazione del potere in quanto serviva inoltre a garantire al principe della città il regolare svolgimento dello spettacolo e la legittimazione sacra, divina di ciò che lui aveva ordinato, ovvero la sentenza di condanna capitale. 

Qual è dunque, se c’è, la tesi che lei sostiene nel libro riguardo al rapporto tra religione cristiana e pena capitale? 

Nel libro, seguo le vie diverse attraverso le quali si stratifica questa radice cristiana della pena capitale: c’è la versione cattolica, italiana e c’è, invece, quella protestante radicale. Secondo la mia opinione, entrambe le dottrine alimentano ancora oggi una diversa maniera di considerare la pena di morte, una differenza di vedute che fu lampante, per esempio, quando, nel maggio 2011, all’annuncio della notizia della esecuzione di Osama Bin Laden il presidente degli Stati Uniti Barack Obama disse quella frase “giustizia è stata fatta” e, invece, dall’altra parte, la sala stampa del Vaticano e poi anche gran parte dell’opinione pubblica, soprattutto italiana, rispose con dichiarazioni critiche di quella frase, sostenendo che non è affatto giustizia il rispondere alla violenza con altrettanta violenza ma, al contrario, è il perdono la vera giustizia cristiana. In queste due reazioni diverse, secondo me, si rispecchia il differente atteggiamento, della radice cattolica e di quella protestante, nei confronti della pena di morte. 

Come giudica il fatto che, nel 2014, in un paese industrializzato e civilizzato come gli Stati Uniti d’America ci sia ancora la pena di morte?


Naturalmente l’uso della pena di morte non è soltanto cristiano, i luoghi dove oggi viene praticata maggiormente sono culture non cristiane, per esempio quella cinese, tuttavia nemmeno nella tradizione cattolica c’era il totale rifiuto della pena di morte, contro Beccaria infatti la cultura cattolica di allora si schierò compattamente, poiché la dottrina Tomistica sostiene che, appunto, la pena di morte può essere utile per garantire l’ordine e per rispondere all’atto del criminale con una punizione adeguata. Diciamo che il Cristianesimo, credendo nella sopravvivenza dell’anima, ha questa via d’uscita della legittimazione della pena di morte in terra perché è dopo che c’è la vera vita. Quindi uccidere l’essere umano non vuol dire troncargli la vita, vuol dire farlo passare ad un’altra, migliore vita. Dunque, la giustificazione del perché un paese come gli Stati Uniti, ancora oggi, si avvalga di questo metodo va ricercato nella sua profonda radice religiosa, protestante.

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