Giustizia: quando il detenuto si uccide in cella è sconfitta la società |
di Antonio Mattone
Il Mattino, 24 febbraio 2014
Tre suicidi nel giro di pochi giorni nelle carceri campane. Queste vittime fanno a salire a 9 il numero dei detenuti che si sono tolti la vita nelle prime settimane del 2014 in Italia. "La morte di un uomo è una tragedia, la morte di milioni è una statistica", affermava Stalin. Questi ultimi episodi portano al drammatico bilancio di 810 suicidi a partire dal 2000. In Campania, lo scorso anno, si è toccato il picco dell'ultimo decennio, con 9 carcerati che si sono ammazzati.
M.C. era alla prima esperienza detentiva nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel padiglione di Alta Sicurezza. Nulla lasciava prevedere il suicidio. Forse la prospettiva di una lunga detenzione lo ha demoralizzato. Nella Casa Circondariale "Giuseppe Salvia - Poggioreale", invece, A. A. era alla sua settima carcerazione. Tossicodipendente di 36 anni, è morto asfissiato inalando il gas della bomboletta che i detenuti utilizzano per cucinare. Probabilmente cercava solo un po' di sballo ma non è riuscito a controllare gli effetti della sua azione. Infine, nell'Opg di Napoli, B.M., internato in misura di sicurezza provvisoria, si è impiccato nella stanza in cui stava solo.
Questi tre suicidi hanno un filo conduttore: la disperazione e la solitudine di chi vive la carcerazione e non riesce a sopportarla.
È nell'immediatezza dell'ingresso in prigione o in prossimità della liberazione, che di solito avviene questo gesto estremo.
Sappiamo come il carcere impoverisce e la lontananza dalla famiglia può creare forti lacerazioni al suo interno. La paura di uscire e di trovarsi senza sostegno, senza casa, lavoro e affetti può creare smarrimento e turbamento. Un detenuto che si uccide alla vigilia della dimissione non solo è la peggiore sconfitta del sistema penitenziario, ma è il fallimento di un intero sistema sociale.
Anche lo stress quotidiano della vita in carcere, può rappresentare un elemento in grado di far superare la soglia di resistenza di una persona. Basta pensare che in un carcere come Poggioreale, si vive anche in 12 detenuti in uno spazio di appena 30 mq. per 22 ore al giorno, dove tutto è pubblico e condiviso. Persino le proprie lacrime e il proprio dramma sono visibili a tutti, e le proprie preghiere per essere nascoste devono essere solo mormorate. La promiscuità è totale. Nella maggioranza dei padiglioni non ci sono docce nella stanza, ed è possibile usufruirne solo per 2 volte alla settimana. È predisposto un unico luogo dove si cucina e si espletano i propri bisogni fisiologici, con tutto quello che questo comporta.
Eppure l'ordinamento penitenziario definisce le celle "stanze di pernottamento", dove si dovrebbe solo dormire, mentre la vita quotidiana andrebbe svolta in altri locali definiti di soggiorno, dedicati alla realizzazione delle attività lavorative, scolastiche e trattamentali. Il carcere diviene così scuola di delinquenza ma anche luogo di disperazione.
Il disagio che si vive nelle prigioni italiane non risparmia gli operatori penitenziari. Anche tra gli agenti si registrano numerosi suicidi, 100 casi dal 2000 ad oggi. Turni massacranti per la carenza di personale, condizioni lavorative stressanti rendono questo lavoro davvero difficile. Il carcere invece di recuperare e restituire alla società persone cambiate annienta le esistenze più fragili e le spinge alla marginalità, fino a compiere gesti estremi. Occorre ben più di una legge svuota carceri per fargli riacquistare la sua funzione rieducatrice. Bisogna investire risorse, ed energie. Ma sappiamo come questo tema sia impopolare.
"Chi salva una vita salva il mondo intero", è scritto nel Talmud. Anche se si tratta di quella di un detenuto.
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