Riconosciuto innocente dopo 13 anni trascorsi nel braccio della morte oggi viaggia e racconta.
"I miei anni da condannato a morte e lo choc della vita all'improvviso"
di EMANUELA AUDISIO
"La guardia mi ha chiesto: ancora qui? Io gli ho risposto: adesso aspetti tu. Sono stato in trance per un'ora, non avevo più fretta. Ero entrato in galera a 18 anni, ne uscivo a 31. Prosciolto dall'accusa di omicidio, dopo 4 processi". Shujaa Graham, americano, è il ventesimo condannato a morte riconosciuto innocente e liberato. Degli uomini perduti, lontani dalla misericordia del mondo, si sa quasi tutto. Le ore trascorse con gli occhi fissi nel vuoto, l'agitazione che prende quando pensi alla forca, l'umiliazione dei giorni che diventano lastre di ghiaccio.
"Sono nato in Louisiana nel '51, figlio di raccoglitori di cotone, eravamo 5 fratelli e 2 sorelle, da mangiare per tutti non c'era, così i miei si sono trasferiti in California, io sono rimasto con la nonna. Quando mio padre ha trovato un posto da muratore l'ho raggiunto a Los Angeles, zona di South Central, anzi zonaccia. Rubavo macchine, la mia gang sarebbe diventata quella dei Crips. Ero un ragazzaccio. A 18 sono finito in riformatorio, quattro anni dopo sono stato arrestato per una rapina di 35 dollari in un negozio. E condannato all'ergastolo. L'accusa sosteneva che io ero armato. Prigione di Soledad, un'altra San Quintino. In galera mi sono politicizzato, ho imparato a leggere e a scrivere, Malcom X mi stava più simpatico di Martin Luther King. Nel novembre del '73 durante una rivolta carceraria è stata un'uccisa una guardia bianca a pugnalate. Testimoni ai quali erano stati promessi sconti e soldi hanno detto che il colpevole ero io. Parlavo dell'oppressione dei neri, lottavo per i diritti civili, dicevo che Rosa Parks aveva fatto benissimo a non cedere il suo posto sul bus ai bianchi, e non perché fosse vecchia e stanca, figurarsi aveva solo 37 anni. Ero l'accusato ideale: nero e rompiscatole. Fa niente se in carcere venivo bastonato dalle guardie, bianchi reduci dal Vietnam, ormai fuori di testa. Avevo precedenti e così mi condannarono a morte: un fetente in meno. Appena arrivato in cella mi fecero visitare da uno psichiatra: lei è scosso, mi disse, e mi prescrisse vari di farmaci. Aggiunse: vedrà, queste pillole la calmeranno. Già, lo stress della morte. La mia fortuna è stata aver buttato via quella robaccia. Meglio lo yoga".
Graham oggi vive nel Maryland, gestisce una piccola compagnia che si occupa di giardinaggio, ha moglie, conosciuta in carcere, dove faceva l'infermiera, e tre figli, due ragazze e un maschio.
"In isolamento devi darti un programma, trovare un ritmo, non hai orologi, il tuo tempo è deciso dalle regole carcerarie. Mi svegliavo, facevo colazione, poi ginnastica, poi leggevo, alle quattro veniva servita la cena. Terribile, anche perché sono vegeteriano: con gli altri detenuti scambiavo la carne per verdure. E ne nascondevo un po' per la sera, anche perché di pomeriggio non è che hai una gran fame. La posta la portano all'imbrunire: è il momento più bello, quello dove c'è più eccitazione. Soprattutto se hai qualcuno che ti scrive, altrimenti ti rassegni a dividere le lettere degli altri. Nel braccio della morte si sta meglio che in prigione, hai più vantaggi, dato che devi crepare sono più gentili: puoi avere altri libri, oltre alla Bibbia, e io mi facevo mandare saggi politici e sociali, puoi ascoltare la radio e vedere una piccola tv. Una sera del '79 mi viene un accidente: vedo sullo schermo la faccia di uno che assomiglia a me, dicono il mio nome, la Corte Suprema della California ha deciso di cambiare verdetto, non devo più morire. Mi batto per la revisione del processo, nel terzo la giuria è spaccata a metà, non riesce a decidere, nel quarto vengo finalmente assolto. Mi dicono: esci, la strada per la libertà è da quella parte. Io mi avvio verso la cella, voglio riflettere, mi manca il respiro. Mi guardo: la barba è diventata bianca, tanti miei amici non ci sono più, mio padre è morto, non sono andato al suo funerale, il tempo è passato. Fitta, dolore, amarezza. Eppure dovrei essere felice, che altro voglio?".
La vita, fuori. All'improvviso. "Riabituarsi è dura. La benzina costava 30 centesimi, la ritrovo a un dollaro. Le macchine vanno più veloci, tutto corre, non sono abituato alle tastiere del computer, al cellulare. Sembra una stupidata, ma mi ritrovo incapace, quasi invalido. Mi allaccio le scarpe e mi viene voglia di piangere. Per la speranza rubata. Che io ho riavuto, ma altri no. Per la sofferenza di quelli che non hanno evitato il boia. La sento mia, fino in fondo. È un veleno che non riesci a eliminare, è come essere seppelliti e poi togliersi via la terra. Non ce la fai del tutto, ti resta sempre qualche granello. La pena di morte puzza, inquina la libertà, per questo va eliminata".
La Repubblica, 29 novembre 2006
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