Pavel Selyun |
“Voglio seppellire mio figlio, voglio recitare le preghiere e dargli sepoltura cristiana. Posso avere questo diritto?” – chiede, disperata.
Tamara, la pace, rischia di non averla mai. Perché non troverà il corpo di suo figlio.
Le autorità della Bielorussia, l’unico paese europeo a prevedere e applicare la pena di morte, non solo non rendono note in anticipo le date delle esecuzioni ma neanche informano le famiglie a esecuzione avvenuta. Queste vengono a saperlo quando, bussando al portone di una prigione, si sentono dire che il parente “non c’è più”. È il cinico modo per comunicare che l’esecuzione della condanna a morte ha avuto luogo.
Da lì, inizia il calvario delle madri: come prevede l’articolo 175.5 del codice di procedura penale, le salme dei prigionieri messi a morte non vengono restituite e il luogo di sepoltura resta segreto.
Vladislav Kovalev |
Lyubov Kovalaeva sta ancora cercando la tomba di suo figlio Vladislav, messo a morte nel marzo 2012 dopo che era stato giudicato colpevole dell’attentato alla metropolitana di Mosca dell’aprile 2011.
Due mesi dopo l’esecuzione, Lyubov ha scritto al parlamento, al ministro dell’Interno, alla procura generale, alla corte suprema e al presidente Alexander Lukashenko chiedendo che le venisse restituita la salma del figlio. Sta ancora aspettando che qualcuno le risponda.
Nell’ottobre 2012 il Consiglio Onu dei diritti umani ha concluso che “il rifiuto dello stato di restituire le salme dei condannati a morte per la sepoltura o di rivelare il luogo dove sono stati sepolti costituisce una forma di intimidazione e di punizione nei confronti delle famiglie, che vengono volutamente lasciate in uno stato d’incertezza e di sofferenza mentale”.
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