Intervento
di Mario Marazziti, Scelta Civica, alla Camera dei Deputati, 24 giugno 2013
Signor Presidente,
Onorevoli Colleghi!
Il testo di legge che quest’aula comincia a esaminare oggi in
materia di pene detentive non carcerarie, di sospensione del procedimento con
messa alla prova e nei confronti degli irreperibili è un primo passo per riavvicinare un paese il cui sistema carcerario è scivolato
nell’illegalità, a un paese normale e civile.
Il sistema carcerario è una cartina di tornasole del grado di
civiltà di un paese, delle sue contraddizioni e difficoltà. C’è sofferenza in molti paesi occidentali.
Gli Stati uniti segnano il record di oltre due milioni di detenuti e in alcuni
stati americani la spesa carceraria supera quella per il sistema scolastico. Ma
l’Italia è ormai alle prese con una crisi di sistema che richiede un pensiero e
un intervento radicale.
«Siamo
ancora lontani dal momento in cui la nostra coscienza potrà essere certa di
aver fatto tutto il possibile … per offrire a chi delinque la via di un riscatto
e di un nuovo inserimento positivo nella società», segnalava con
preoccupazione Giovanni
Paolo II nel Messaggio per il Giubileo delle carceri nel
2000.
In tredici anni, in Italia, la situazione è peggiorata. Il sovraffollamento cronico, e ormai malato, non
corrisponde alla crescita dei reati gravi, che vedono l’Italia con meno omicidi
che in Gran Bretagna e Francia, tre volte meno che negli Stati Uniti. E che
vede l’Italia, per crimini violenti, delinquere la metà della Francia e cinque
volte meno della Svezia. Per le rapine a
mano armata e le violenze personali, l’Italia per fortuna è molto indietro a
Spagna, Francia Gran Bretagna. Eurostat mostra come le rapine in appartamenti
siano in Italia meno che in Francia, e la metà della Gran Bretagna. Roma e
Milano tre volte meno di Londra.
Carcere e gravità dei crimini sono due curve che
non si parlano. E così pure carcerazione e sicurezza non sono più fenomeni
paralleli. Più carcere spesso significa meno sicurezza.
Al 31 maggio scorso i detenuti erano
quasi 66mila (65.886) a fronte di una capienza di 46.945 posti e 24.342 in attesa di
giudizio.
Occorre trovare qui in Parlamento il consenso largo per
approvare un provvedimento di clemenza, di amnistia, che permetta, assieme a
interventi organici, di cui questo è il primo, trasformare la patologia
italiana in fisiologia. Non ci si può accanire con la reclusione di chi ha superato il 70mo anno
d’età. La messa alla prova, l’audizione anticipata del reo da parte del giudice
può riassorbire il patetico fenomeno conosciuto come “porte girevoli”, quanti
trascorrono pochi giorni o ore in carcere prima di essere rimessi in libertà,
con un aggravio di sistema e un costo umano tanto alto quanto non necessario.
Si. Amnistia non è una “ brutta parola” o una “scorciatoia”. E’ una necessità,
non come provvedimento isolato. Non solo come svuota-carceri. Ma come momento
terapeutico e anche di respiro per il sistema. I dati sull’ultimo indulto,
amplificati dalla stampa quando negativi, in realtà sono molto incoraggianti.
Contro una recidiva del 67,68 per cento di chi sconta tutta la pena, la
recidiva di chi ha goduto dell’indulto è rimasta sotto al 35 per cento, la
metà, e se si guarda a chi godeva di benefici e pene alternative al momento in
cui è stato raggiunto dall’indulto si scende a cifre di poco superiori al 10
per cento, con un’efficacia pari a sei volte.
Occorre mettere mano, come stiamo facendo, alla revisione di
leggi come la Fini-Giovanardi e la ex-Cirielli, perché ne abbiamo visto la
ricaduta negativa sull’intero sistema e da sole riempiono di un terzo di
detenuti i nostri carceri sovraffollati.
Il
personale carcerario, al contrario, è al di sotto
degli organici previsti in misura del 15 per cento: personale
previsto 41268, personale presente 35343
(al 2009).
Si intuisce come manchi personale sufficiente sia alla
sorveglianza che all’accompagnamento, di certo anche all’esplicamento delle
pratiche necessarie per l’attuazione di misure alternative: diventa difficile
essere curati fuori dal carcere in caso di necessità, mentre è norma la
mancanza di spazio vitale, l’aumento delle tensioni.
L’Italia è un Paese
leader nella lotta alla pena di morte. Ma c’è una pena capitale all’italiana,
una pena non comminata, ma reale, terribile,
testimoniata dal numero terribile di suicidi in carcere: 84 accertati
negli ultimi 18 mesi e molte di più le morti da carcere, per altre cause, 150
nello stesso periodo. Per ogni detenuto che si toglie la vita c’è un suicidio
nel personale carcerario. Dieci atti auto lesivi sono denunciati ogni giorno,
migliaia ogni anno. E aumentano le aggressioni al personale carcerario.
L’Italia è malata perché ha un sistema carcerario malato.
E in carcere ci si ammala: di più. E si è curati,
per forza, di meno. Metà dei carcerati è affetta da epatite, il 30% è
tossicodipendente, il 10% soffre di patologie psichiche, il 5% affetto da HIV
.
Permettetemi un testimonianza personale. Il
giorno dopo Natale ho il privilegio di potere organizzare un pranzo di natale nella Rotonda di Regina
Coeli, qui a Roma, dove Giovanni XXIII visitò per la prima volta in epoca
contemporanea i carcerati. Ascolto storie di persone che non hanno più attività
ricreative perché nel III braccio le sale ricreazione hanno 12 letti l’una. E
le celle da due sono tutte da tre. Persone che fanno i turni per stare in piedi
e non sdraiati sul letto. L’inverno gelido in ambienti molto difficili da
riscaldare. Ascolto i racconti sul vitto. Non sulla qualità, ma sulla quantità.
La distribuzione a pranzo inizia da destra a sinistra e a cena da sinistra a
destra, nei bracci. Così se finisce il cibo non manca due volte agli stessi
nello stesso giorno.
Il risultato è disperante. Il 67-68 per cento delle persone
che scontano tutta la pena è recidiva e rientra in carcere. Chi sta più in
carcere teme meno il carcere o si indebolisce al punto da non sapere più
evitare il carcere. Le inefficienze di sistema fanno sì che migliaia di
detenuti trascorrano in carceri ormai promiscui meno di undici giorni,
aumentando il sovraffollamento ed entrando in contatto con la devianza più consolidata in una contaminazione
tutt’altro che salutare, con sovraccarico di tutto il sistema. La conseguenza è
l’assottigliamento progressivo delle risorse, che vede disponibili ormai meno
di 4 euro al giorno per il vitto e la metà delle risorse disponibili
pro-detenuto all’anno rispetto solo a un quinquennio fa. Per questo i
provvedimenti che esaminiamo oggi, se hanno un limite, è di non essere stati
già approvati, come un primo, minimo, necessario, passo di civiltà e buon
senso.
L’Italia è in mezzo
a una grande contraddizione. Una raffinata cultura giuridica, capace di
ispirare altri paesi; una legge, la 354/75, che pone con forza al centro
dell’azione il recupero e il reinserimento sociale della persona deviante,
secondo l’art.27 della Costituzione, e una resistenza pratica al contrario, ad abbandonare l’idea del
carcere come “ultima ratio”, per farne l’approdo di gran parte delle
contraddizioni sociali del Paese.
L’articolo 27, 3° comma,
della Costituzione recita che «le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato». Già Francesco Carnelutti affermava in quei tempi che il processo
penale avrebbe fallito il suo scopo se con la giusta pena non si fosse
raggiunto anche l’obiettivo del riabbraccio ultimo tra la società e il reo.
E l’Italia è
fuori-legge. Già condannata dalla Corte
europea dei diritti umani di Strasburgo, che ha rigettato la richiesta per il
riesame del ricorso Torreggiani davanti alla Grande Camera. Un anno di tempo
per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario. E 100 mila euro per
danni morali a sette detenuti a Busto Arsizio e a Piacenza. Altri 500 ricorsi
sono pendenti. La punta di un iceberg. La sospensione del procedimento potrebbe
spingersi, forse dovrebbe spingersi in questa situazione fino a una moratoria
degli ingressi in carcere, fino a un “numero chiuso”, fintanto che il carcere,
come è, non risponde più al dettato costituzionale e non ha chance realistiche
di procedere alla riabilitazione (solo una volta su tre, come abbiamo visto).
Non è sovversivo, ma
ragionevole che lo Stato abbandoni una fallimentare politica meramente
“segregativa-assistenzialistica” del detenuto, lasciando, in una piena
attuazione del principio di sussidiarietà, agli enti locali e al
privato-sociale il compito di un intervento più capillare e fattivo che possa
investire in modo costruttivo nel rapporto con i detenuti.
E’ evidente nello
scandaloso caso dei bambini da 0
a 3 anni che ancora crescono in carcere con le loro madri nelle “sezioni-nido”. Quasi 50
bambini. Occorre rimuovere quegli ostacoli che non permettono alle donne-madri
di scontare la pena con i propri figli fino al 10mo anno di età fuori dal
carcere in case famiglia gestite dagli enti
locali, Il carcere, in un sistema
orientato al recupero e all’emenda, è solo l’“extrema ratio” dell’intervento
punitivo. Cominciamo dal provvedimento di oggi, per mettere mano con urgenza
all’intero sistema. E’ un’occasione storica.
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