mercoledì 25 marzo 2015

Papa Francesco: la pena di morte è inammissibile

Mercoledì 25 marzo 2015 

di Antonio Salvati

Ricevendo in udienza una delegazione della Commissione internazionale contro la pena di morte, Papa Francesco ha nuovamente ribadito il suo monito contro la pena di morte. Nella lettera consegnata al presidente Federico Mayor si legge: “Oggi la pena di morte è inammissibile, per quanto grave sia stato il delitto del condannato. È un affronto alla sacralità della vita e alla dignità della persona umana che contraddice il piano di Dio per l’uomo e la società e la sua giustizia misericordiosa, e impedisce di conformarsi a qualsiasi finalità giusta della pena”. Si ribadisce non solo l’inaccettabilità morale della pena di morte, ma si invita a recuperare la prospettiva di una pena che rappresenti un percorso significativo, in un’ottica di reintegrazione sociale del condannato.

Come ha più volte sottolineato il giurista Luciano Eusebi “tutto questo non implica che la giustizia penale debba essere costruita secondo un modello di ritorsione del male commesso”. Occorre abbandonare un concetto della giustizia fondato sulla reciprocità dei comportamenti. La pena non ha il compito di soddisfare supposti bisogni di ritorsione, ma di favorire la comprensione della gravità dell’illecito, valorizzando la capacità della sanzione di ricomporre sul terreno dei rapporti intersoggettivi la frattura generatasi con l’atto criminoso. Non a caso Giovanni Paolo II sollecitava significativamente i giuristi, nel messaggio per il Giubileo nelle carceri dell’anno 2000, “a riflettere sul senso della pena e ad aprire nuove frontiere per la collettività”.


In altri termini, si potrebbe dire il punire inteso non come un onere, ma una chance, sebbene impegnativa, per l’autore del reato. Sul rapporto fra giustizia e perdono, il Papa Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace 2002 disse: “Il perdono va contro l’istinto spontaneo di ripagare il male col male… Nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una “politica del perdono” espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano” (n. 8).

Dunque rispondere al male col male non rientra, secondo il Papa, in una logica di giustizia, ma è considerato un istinto. E una giustizia dal volto umano deve trarre spunto da una cultura del perdono. Sempre Papa Giovanni Paolo II nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 1997, aventi per oggetto specifico il superamento di guerre etniche o civili segnate da gravissimi delitti, ebbe a dire: “La giustizia non si limita a stabilire ciò che è retto tra le parti in conflitto, ma mira soprattutto a ripristinare relazioni autentiche con Dio, con se stessi, con gli altri. Non sussiste, pertanto, alcuna contraddizione fra perdono e giustizia. Il perdono, infatti, non elimina né diminuisce l’esigenza della riparazione, che è propria della giustizia, ma punta a reintegrare sia le persone e i gruppi nella società, sia gli Stati nella comunità delle Nazioni. Nessuna punizione può mortificare l’inalienabile dignità di chi ha compiuto il male. La porta verso il pentimento e la riabilitazione deve restare sempre aperta” (n. 5).

Riflessioni simili concernenti il significato della giustizia le ritroviamo anche in altri ambiti religiosi. Dalil Boubakeur, rettore della Università Islamica e della Moschea di Parigi, in un convegno convegno interreligioso organizzato nel 2002 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dal titolo Non è giustizia rispondere con il male al male. Un punto di incontro fra le tradizioni religiose? osservò che “per evitare gli effetti disastrosi delle regole di vendetta (tha’r) perpetuatesi prima dell’Islam c’è il principio di riparazione, del riscatto dovuto (diya), che ha codificato la possibilità di cancellare un debito morale, materiale, un’offesa e persino il prezzo del sangue con mezzi diversi dal male per il male”. 
Nello stesso convegno l’ebreo Haim H. Baharier, parlò della misericordia (della giustizia in quanto tzedaqà) come di un atto relazionale, non passivo, che delinea un percorso, rispetto a una relazione mancata. In un articolo apparso sul Corriere della Sera nel 2001, lo stesso autore ci informa ciò che le edizioni europee della Scrittura hanno tradotto, in modo inadeguato, come il punire da parte di Dio (pokèd) nei termini del verificare, del cercare “i segnali del ripensamento, del ritorno, in quanto passaggio dalla sterilità alla fecondità”. E dell’occhio per occhio indica la corretta traduzione, secondo un orientamento riparativo, come «occhio in sostituzione dell’occhio», ossia che se cavo un occhio a te, devo sopperire alla mancanza procurata sovvenendo per tutta la vita in modo adeguato alla tua menomazione.

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