lunedì 1 dicembre 2014

Nella pena di morte né umanità né giustizia

da Avvenire 
del 30 novembre 2014

di Marco Impagliazzo

  
Cesare Beccaria, 250 anni fa, consegnava alle stampe il manoscritto che sarebbe divenuto Dei delitti e delle pene. In quel testo emergeva fiducia nella capacità della ragione di illuminare il campo dell'azione penale, consapevolezza delle difficoltà insite nel contrasto di idee e consuetudini millenarie, orgoglio di combattere per «la causa dell'umanità», come è scritto nel capitolo dedicato all'abolizione della pena di morte.
La condizione di chi lotta, oggi, contro la pena capitale è ben diversa. Particolarmente in Europa, continente che con maggiore decisione e compiutezza ha voluto scrollarsi di dosso il retaggio di atti di violenza che si aveva il coraggio di chiamare giustizia. Ma anche guardando al vasto mondo ci si può rallegrare che diminuisca, anno dopo anno, il numero dei Paesi
mantenitori e quello dei condannati a morte al termine di una procedura ufficialmente legale. Il recente voto alla III Commissione delle Nazioni Unite (quella che si occupa di «questioni sociali, culturali e umanitarie») sulla proposta di moratoria universale della pena di morte è stato un successo, con 114 Stati favorevoli alla mozione, tre in più rispetto a due anni fa. Quel voto fa sperare in un mondo che avanzi sulla via del diritto e dell'umanità, trasmettendo a tutti, e in particolare alle generazioni più giovani, l'idea della vita come qualcosa di prezioso. Per questo, oggi, 30 novembre, giorno che ricorda la prima abolizione della pena di morte in uno Stato europeo, il Granducato di Toscana nel 1786, si celebra la giornata Città per la vita. Migliaia di città nel mondo, tra cui molte capitali, su iniziativa della Comunità di Sant'Egidio, si fermano per riflettere sul superamento della pena di  morte. E' un sogno realizzaile. Un possibile, nuovo, passo in avanti dell'umanità. Ma mai abbassare la guardia! Anzi. C'è uno sforzo collettivo da sostenere, per suscitare un movimento ancora più largo dei cuori e delle coscienze. La fiducia e l'impegno degli attivisti e delle tantissime persone impegnate in questa battaglia non deve essere disgiunta dalla consapevolezza delle difficoltà, la stessa vissuta da Beccaria 250 anni fa. Non può non accompagnarsi a un discorso meditato e insieme appassionato per spiegare a un mondo spaventato e spaesato che non c'è giustizia senza vita.
In Asia e negli Stati Uniti soprattutto, ma non solo, c'è da conquistare le istituzioni alle ragioni della vita e dell'umanità, aiutandole a ritrovare nel rispetto della persona umana la radice profonda di ogni politica che tenda al bene comune. Occorre guarire i popoli dal fascino del rancore e della vendetta, se è vero che, anche quando diminuiscono le esecuzioni, troppo frequenti sono, in alcune zone del mondo, le uccisioni extragiudiziali e i linciaggi. Dovunque, c'è da far crescere il senso di quanto l'altro ci sia vicino, perché, come ha affermato papa Francesco il 23 ottobre: «È diffusa la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in se stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose».
Lottare contro la pena di morte è lottare per la vita. È difenderla, garantirla, erigerle attorno una rete di protezione che parli alla mente e al cuore, vincendo tanto la tentazione di credere che i problemi possano essere superati eliminando un essere umano, quanto la scorciatoia dello "scarto" dei più poveri, degli "inutili", di coloro la cui esistenza è ritenuta meno meritevole di essere portata avanti, quasi che tutti costoro siano un ostacolo a un procedere più spedito.
I 250 anni passati da quando un nostro concittadino ha scelto di spendere la propria intelligenza e la propria passione a difesa della vita nei tribunali e nelle carceri, siano stimolo per continuare la battaglia, estenderla, vincerla in profondità, rispondendo così all'invito fatto a tutti dal Papa: «Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà lottino per l'abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme».




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