A colloquio con il giurista Luciano Eusebi dopo il rescritto di Papa Francesco: come rispondere secondo giustizia alle realtà negative
Pubblicato il 04/08/2018
di MARCO RONCALLI
«Inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona», così Papa Francesco ha disposto la modifica del n. 2.267 del Catechismo della Chiesa cattolica circa la pena di morte , approvando una riformulazione del testo da tradursi nelle diverse lingue e inserire in tutte le edizioni. Ne parliamo con il professor Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (disciplina che insegna anche presso la Pontificia Università Lateranense di Roma), autore di diverse pubblicazioni sul tema, tra cui “La chiesa e il problema della pena” (Editrice La Scuola, 2014), membro di importanti commissioni paritetiche: da quella fra Santa Sede e Italia per l’attuazione degli accordi concordatari, a quella istituita dalla Conferenza episcopale e dal Governo italiano per la regolamentazione dell’assistenza religiosa ai detenuti e agli agenti di polizia penitenziaria. E ne parliamo con lui, perché, benché schivo e discreto, è stato uno degli storici protagonisti di questa battaglia che per lunghi anni ha auspicato una chiara affermazione nel Catechismo dell’inammissibilità di principio della condanna capitale.
Professor Eusebi, lei già nel 1993 su un articolo pubblicato dalla rivista Humanitas (il titolo era “Il nuovo catechismo e il problema della pena”), circa le espressioni riguardanti la pena di morte e lo scopo della punizione statuale, scriveva che l’indicazione emergente le appariva «carente sul piano della forza profetica e inadeguata, su quello morale, rispetto alle stesse acquisizioni della scienza penalistica più avvertita»…
«Quella impostazione rimaneva carente nella forza profetica perché svolgeva un’argomentazione di taglio essenzialmente utilitaristico, senza alcun riferimento – in un Catechismo – di carattere teologico-morale (come peraltro continua ad accadere con riguardo al n. 2.266, che attiene alle sanzioni penali in genere), e senza alcuna considerazione riferita alla persona del condannato. Ciò risentiva pur sempre, in radice, della classica visione retributiva in materia di giustizia, secondo cui è la ritorsione del male che produce la prevenzione, cioè il bene: visione antitetica rispetto al messaggio cristiano, in forza del quale la risposta al male sta in una progettualità, ancorché impegnativa, secondo il bene. Ma quell’impostazione si poneva altresì in antitesi alla consapevolezza, che risale a Cesare Beccaria, secondo cui una risposta al reato la quale neghi quegli stessi valori, come il valore della vita, che dichiara di voler difendere incentiva la disponibilità sociale alla violenza. La prevenzione stabile nel tempo, infatti, non dipende da (controproducenti) fattori di intimidazione, bensì – fermo l’intervento severo sugli interessi materiali coltivati in modo criminoso – dalla capacità dell’ordinamento giuridico di mantenere elevato nella società il consenso sociale al rispetto (per scelta personale) dei precetti normativi. E nulla riconferma maggiormente l’autorevolezza di una norma violata, destabilizzando le stesse organizzazioni criminose, del fatto che un agente di reato riconosca l’ingiustizia commessa e assuma un percorso di responsabilizzazione nei confronti del medesimo».
Formalmente al punto ex 2267, si sanciva che l’insegnamento tradizionale della Chiesa non escludeva, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani… Ma come poteva rientrare in quella cornice la pena di morte? Parliamo di esecuzioni, di soggetti incarcerati, resi innocui, inoffensivi….
«In effetti, il precedente testo del n. 2267 nel Catechismo fondava la rinuncia alla pena di morte sulla constatazione contingente dell’essere oggi “praticamente inesistenti” le condizioni che in linea teorica, secondo quel testo, avrebbero potuto legittimarla: condizioni le quali in sostanza venivano ricondotte a quelle proprie della legittima difesa. Ma la legittima difesa riguarda esclusivamente il contrasto proporzionato e non altrimenti praticabile di una condotta aggressiva in atto: situazione del tutto diversa da quella che caratterizza l’inflizione e l’esecuzione di una condanna capitale. Per cui, da un lato, si poteva desumere che quest’ultima non fosse mai applicabile in concreto, posto che le condanne giudiziarie non sono certo riconducibili alla legittima difesa, mentre dall’altro lato, nondimeno, rimaneva aperto lo spazio perché qualcuno potesse argomentare di una presunta inevitabilità, in dati casi, del ricorso alla pena di morte per difendere la società dal crimine: con un’indebita sovrapposizione tra il concetto di prevenzione (cui comunque, come s’è detto, la pena di morte non giova) e il concetto di legittima difesa».
Da lì quasi venticinque anni prima di arrivare al rescritto di Papa Francesco appena reso noto: quali le tappe di questo periodo che l’ha vista impegnata con pochi altri su questo fronte?
«Già rispetto alla prima stesura del Catechismo, l’edizione definitiva del medesimo aveva recepito, nel 1997, le parole della enciclica Evangelium vitae (n. 56) di San Giovanni Paolo II intese a precisare la sostanziale insussistenza, oggi, delle condizioni che si riteneva potessero legittimare, sul piano teorico, il ricorso alla pena di morte. Molte voci, poi, si erano levate per una ridefinizione dell’intera materia: si pensi solo all’impegno costante della Comunità di Sant’Egidio per l’abolizione della pena di morte nei Paesi che ancora la prevedono, anche attraverso i convegni annuali tra ministri della giustizia delle più varie provenienze, cui ho potuto contribuire, sul tema “A World without death penalty”. Personalmente ho cercato di offrire supporto attraverso la ricerca di un continuo raccordo tra le motivazioni laiche e teologiche che aprono a una visione nuova della pena, nel solco della giustizia riparativa (“restorative justice”). Ma mi risulta, per esempio, che lo stesso Benedetto XVI desiderasse un tale percorso, per i cui fini lavorò una commissione teologica la quale produsse, sul tema, un importante fascicolo della rivista Gregorianum (n. 1/2007) e si elaborò un ampio testo sulle problematiche della pena e della pena di morte presso l’allora Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace”; testo che io stesso predisposi, ma che non poté avere, all’epoca, ulteriori sviluppi. Potrebbe dunque essere maturo il tempo per riprendere una riflessione più complessiva, e potenzialmente profetica, sulla giustizia penale da parte della Chiesa cattolica, anche con riguardo alla ripresa d’interesse che tale materia ha conosciuto sia nell’ambito del diritto canonico, sia nell’ambito del diritto dello Stato della Città del Vaticano».
Insomma, si sente soddisfatto, ma…
«Sono certamente contento, ma riterrei necessario, come dicevo, intraprendere il cammino di una riflessione ecclesiale complessiva sul tema della risposta secondo giustizia alle realtà negative: è il tema intorno al quale si gioca il futuro della pace nel mondo e, a ben vedere, la possibilità stessa di un futuro per l’umanità. Ma è anche il tema intorno al quale si gioca la comprensibilità dell’annuncio cristiano nella odierna società secolarizzata».
Quanto c’è in questa modifica sulla pena capitale di conforme alla stessa riflessione teologica degli ultimi decenni sul significato salvifico della giustizia nell’orizzonte biblico?
«Il fatto è che la lettura retributiva ha oscurato la percezione dello stesso fulcro della fede cristiana, complice una utilizzazione affrettata del concetto di soddisfazione vicaria in Sant’Anselmo. Gesù non è salvatore perché la sua sofferenza sulla croce ha compensato, come nessun altro avrebbe potuto, il peccato dell’umanità. Se così fosse, si rimarrebbe nell’ottica giuridicistica mondana: al male deve seguire il male, ed è il male che redime il male. Ma ciò è l’esatto contrario del messaggio cristiano».
Si spieghi...
«Salvifica non è la croce, bensì l’amore portato fino alla croce. Gesù è salvatore perché rivela dinnanzi al male l’essere stesso di Dio come amore speso incondizionatamente: quell’amore che si manifesta nella resurrezione pienezza di vita anche dinnanzi alla sconfitta umana della croce. Per cui la giustizia di Dio si esprime in Gesù come spendita dell’amore dinnanzi al male (se si vuole, laicamente, nella testimonianza coraggiosa del bene dinnanzi al male). Ma il carattere salvifico della giustizia divina (tzedaka) era già chiaro nella riflessione teologica veterotestamentaria, fin dalle narrazioni di Adamo e di Caino: e l’averlo trascurato ha depotenziato un importante elemento di dialogo con le altre religioni monoteistiche. L’attenzione dedicata dalla teologia degli ultimi decenni a questi temi necessita, dunque, di essere resa fruibile nell’ambito ordinario della evangelizzazione».
Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Luis Francisco Ladaria, ha commentato che il nuovo testo «si situa in continuità con il Magistero precedente, portando avanti uno sviluppo coerente della dottrina cattolica». È così? In sintesi quali sono i contributi più rilevanti dei singoli Papi o di interi episcopati verso il traguardo cui si è ora arrivati?
«Certamente vi è stato un cammino: dal memorabile testo della Commissione sociale dell’episcopato francese contro la pena di morte del 1978, agli interventi di tutti i Pontefici recenti (si consideri per esempio il n. 83 dell’esortazione Africae munus di Benedetto XVI): San Giovanni Paolo II pare scrivesse per perorare la rinuncia all’esecuzione della condanna capitale in tutti i casi che gli fossero noti; posso testimoniare che quando a margine di un’udienza, il 14 febbraio 1997, gli chiesi brevissimamente come professore di Diritto penale che potesse essere pienamente superata la posizione del Catechismo sulla pena di morte mi strinse forte le mani nelle sue e, quasi come se le mie parole avessero riacutizzato in lui una ferita, pronunciò tra sé le parole “la pena di morte, la pena di morte…” e mi benedisse».
Leggiamo il nuovo paragrafo. Quale novità più rilevante il superamento rispetto l’editio typica (1997) del concetto di risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti, di mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune? O il fatto che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi?
«Il fatto nuovo più importante, a mio avviso, è dato dall’affermazione del carattere di inammissibilità, senza (più) alcuna riserva, della pena di morte in quanto tale, con la derivazione dell’impegno per la sua abolizione in tutto il mondo. Affermazione, si noti, fondata non solo su specifiche condizioni storiche, né soltanto su una valutazione, pur fondamentale, di ordine etico (l’insopprimibile dignità di ogni vita umana), bensì soprattutto nell’economia del Catechismo “alla luce del Vangelo”: il che attribuisce al nuovo n. 2.267 la massima autorevolezza e vincolatività per il futuro. Ma è anche importante che nella lettera ai vescovi firmata dal cardinale Ladaria si affermi nitidamente che tutte le pene applicate dallo Stato “devono orientarsi innanzitutto alla riabilitazione e alla reintegrazione sociale del condannato”…».
Questo nuovo passo potrà realmente influire sulle politiche dei cinquantasei Stati che mantengono la pena capitale come istituto giuridico in vigore e applicato?
«Questo passo voluto da Papa Francesco potrà avere una influenza culturale straordinaria, ben al di là dell’ambito giuridico: ma risulterà di certo incoraggiante per l’abolizione in tutto il mondo della pena di morte, anche in contesti diversi da quelli di tradizione cristiana. Soprattutto, affermando la centralità inalienabile della vita di ciascun essere umano, rappresenterà un monito per il rispetto non solo formale della realtà esistenziale di ogni individuo, anche se sofferente, povero, migrante, indifeso o colpevole. Non dimentichiamo che Papa Francesco ha ricompreso nel rifiuto della pena di morte anche le pene di morte eseguite di fatto, cioè in modo extragiudiziario: senza processo né condanna (Lettera del 20 marzo 2015 al presidente della Commissione internazionale contro la pena di morte). In sintesi, Papa Francesco apre con questo passo un capitolo nuovo nell’affermazione dei diritti connessi alla dignità di ogni essere umano».
Di fatto il diritto penale è un po’ una cartina al tornasole dei modelli relazionali di una società. Parliamo anche dell’ergastolo, un’altra specie di pena di morte…
«È Papa Francesco ad aver definito l’ergastolo, a ragione, una “pena di morte nascosta” (Discorso del 23 ottobre 2014, all’Associazione internazionale di diritto penale). Senza speranza, senza una “guancia” ancora disponile verso il condannato, nessun percorso di affrancamento da esperienze negative di vita è praticabile. Certamente non potranno che permanere, nei casi più gravi, valutazioni circa l’eventuale persistenza nel tempo di pericolose affiliazioni criminose: ma il disinteresse a priori per il recupero del condannato è un pessimo investimento nell’ottica della prevenzione e priva le vittime stesse della risposta al loro bisogno profondo di vedere riconosciuta l’ingiustizia che le ha colpite».
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