domenica 16 marzo 2014

Sempre meno numerosi i Paesi che fanno giustizia con la pena di morte

Una interessante riflessione  pubblicata da Avvenire il 15 marzo scorso ci ricorda che, anche se a piccoli passi, sono sempre meno numerosi i Paesi che ritengono di far giustizia uccidendo uomini. Ma il cammino è ancora troppo lento. Come ha scritto un condannato a morte alla Comunità di Sant'Egidio: «... Grazie per essere stato mio amico. Grazie per il tempo della tua vita che mi hai dedicato. Sappi che è stata la tua amicizia a fare la differenza». Se anche gli Stati vogliono fare la differenza, non possono più permettersi un cammino troppo lento.


da “Avvenire”: troppo lento il cammino contro la pena di morte


15/03/2014

 
 Tiziano Resca


Due episodi accaduti negli ultimi giorni dovrebbero risvegliare qualche coscienza su una piaga che una parte del nostro mondo cosiddetto civile continua ad alimentare e che un'altra parte continua a condannare quasi solo a parole, come se non ci fossero alternative a quella “spiacevole necessità”. È una delle più orribili strade che una società moderna possa intraprendere: la condanna a morte. L'uccisione di un uomo “in nome della legge”.
Il primo caso arriva dagli Stati Uniti. Un nero oggi sessantaquattrenne è stato scarcerato dopo aver trascorso 26 anni nel braccio della morte. Era stato condannato alla pena capitale nel 1984, riconosciuto colpevole di omicidio. Una storia mai chiarita a fondo, nella quale – dice oggi qualcuno – spuntarono anche elementi dai contorni razzisti. Sbattuto nel braccio della morte nel 1988, ha trascorso gran parte della vita attendendo che si stagliasse davanti a lui la sagoma del boia. Martedì scorso un giudice ha ribaltato tutto e l'ha scagionato. Niente iniezione letale e ritorno a casa, dove l'uomo ha trovato ad attenderlo un adulto: suo figlio, quello che aveva lasciato ancora bambino. Pare che ora abbia diritto a 300mila dollari di rimborso per i trent'anni che gli sono stati rubati. Mille dollari per ogni mese passato faccia a faccia con la morte. Il suo caso non è l'unico: negli Stati Uniti negli ultimi 40 anni sono stati 144 i condannati alla pen a capitale riconosciuti innocenti dopo aver convissuto a lungo in una cella col fantasma del boia.
La seconda notizia è simbolizzata da una fotografia che arriva dall'Iran e che rappresenta il terrore sui volti di due ventenni mandati a morte per una rapina da pochi euro. In quel Paese – dice un rapporto diffuso da un'organizzazione umanitaria – lo scorso anno il boia ha colpito 687 volte, quasi il 20 per cento in più del 2012. Ciò che più fa riflettere è che la maggior parte di queste esecuzioni sono avvenute dopo l'elezione di Hassan Rohani, il presidente nel quale si confida per una riapertura al dialogo con l'Occidente.
Sono due episodi di questi giorni che potrebbero perdersi tra moltissimi altri simili. Perché nei 21 Paesi che ancora praticano la pena di morte ci sono – secondo Amnesty International – circa 680 esecuzioni l'anno. Con l'incognita della Cina, dove il ricorso al boia è tristemente facile ma per la quale non esistono dati attendibili.


Unico elemento che apre alla speranza: anche se a piccoli passi, sono sempre meno numerosi i Paesi che ritengono di far giustizia uccidendo uomini. I ripensamenti ci sono, ma il cammino è ancora troppo lento. Ha scritto un condannato a morte alla Comunità di Sant'Egidio, in prima linea anche nella battaglia per la vita – qualunque vita – e i diritti umani: «... Grazie per essere stato mio amico. Grazie per il tempo della tua vita che mi hai dedicato. Sappi che è stata la tua amicizia a fare la differenza». Se anche gli Stati vogliono fare la differenza, non possono più permettersi un cammino troppo lento.

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