martedì 23 febbraio 2016

Mario Marazziti: rifiutare la logica della pena di morte per non cedere alla trappola del terrore

IX Conferenza Internazionale dei Ministri della Giustizia 


VERSO UN MONDO SENZA PENA DI MORTE


Camera dei Deputati – 22/2/2016







E’ emozionante avere riuniti qui tanti responsabili della giustizia, invitati attraverso fili di amicizia e di dialogo dai miei amici instancabili tessitori della pace e dell’attenzione alle periferie umane e urbane del mondo della Comunità di Sant’Egidio. Sono contento di ospitarvi, come presidente della Commissione Affari Sociali e rappresentante di questo Parlamento Italiano. E’ la continuazione della visione, illuminante, di un grande italiano, Cesare Beccaria, che giovanissimo, nel XVIII secolo, aveva compreso che  è “« un assurdo che le leggi, [le quali]  … detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino uno pubblico»
(Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII).

Il mondo si era abituato alla pena di morte fin dai suoi primi passi. Era sembrata naturale quasi come l’aria e l’acqua. Così è stato per la schiavitù e la tortura. Fin quando la schiavitù è stata abolita, almeno ufficialmente, e l’economia del mondo non è crollata. E la tortura è diventata insopportabile per legge, e quando la si pratica la si pratica di nascosto. Perché è radicalmente sbagliata. Anche la pena di morte è entrata in una fase della storia in cui irrimediabilmente sta diventando uno strumento del passato. La coscienza del mondo sta cambiando. Non è questione di se la pena capitale scomparirà dagli ordinamenti penali, ma solo di quando. Anche se la violenza nel mondo, mai come oggi, sembra crescere, pervasiva, maligna.


Una lunga storia, in compagnia di questa pena che non sembra esprimere forza, ma non ha nemmeno il coraggio delle parole. Si dice “giustiziare”, non “uccidere”. Si dice “esecuzione”, in molte lingue, non “omicidio”. Il Codice di Hammurabi, circa 3800 anni fa, codificava la pena di morte per 25 reati, ma non per l’omicidio. In Italia la Toscana abolisce la pena capitale nel 1786, sulla spinta del pensiero di Beccaria e di un governante illuminato, Pietro Leopoldo di Toscana. Che allora era uno stato a sé, prima dell’unità d’Italia. E’ nell’anniversario di quella abolizione che la Comunità di Sant’Egidio (fondata da Andrea Riccardi) e la Toscana hanno lanciato il movimento mondiale delle Città contro la pena di morte. E’ un movimento di più di 2000 Città per la Vita, nel mondo, oggi. Eppure la stessa Italia ha continuato a utilizzare, a intermittenza, la pena di morte fino alla sua Costituzione Repubblicana, nel 1946. L’Europa ha rinunciato alla pena capitale, progressivamente, dopo la Seconda Guerra Mondiale: troppa morte sul suolo europeo. Nella Carta di Nizza c’è un rifiuto radicale: è parte dell’identità europea, oggi. Era troppo evidente che era uno strumento nelle mani delle dittature che avevano provocato la più sanguinosa delle guerre planetarie. Ma è un cambiamento recente. L’Europa non dà lezioni, è esperta di morte e di dolore. Con gentilezza comunica questa consapevolezza ai paesi amici e fratelli. 
Nel 1975, al tempo della Conferenza di Helsinki, primo atto di distensione Est-Ovest, i paesi del mondo che avevano abolito la pena capitale erano appena 16. Sono diventati 35 quando cade il Muro di Berlino. Nel 2014 all’ONU la Risoluzione per una Moratoria Universale delle esecuzioni capitali ha avuto 117 voti a favore, e 33 contrari. Una crescita di 6 voti dalla Risoluzione di due anni prima. Penso debba essere dato atto al governo italiano del grande lavoro svolto in quella occasione, mentre aveva la responsabilità di guida dell’UE. E un grande successo della sinergia tra istituzioni, governi e lavoro dal basso che con la Comunità di Sant’Egidio si è consolidato sul terreno della pace e della riconciliazione nelle guerre civili, e che è diventato un valore aggiunto nel cammino di uscita dalla pena capitale del mondo. Un lavoro condiviso con la Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte, con altre ONG, da Nessuno tocchi Caino ad Amnesty International. 
L’Italia ha fatto della diplomazia umanitaria e dell’abolizione della pena di morte, la collaborazione con gli altri Paesi per trovare alternative all’uso della pena di morte, un perno ufficiale della sua politica estera, come hanno affermato il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il Ministro degli esteri Gentiloni.

Lasciatemi dire che è stato anche il frutto di un intenso lavoro di diplomazia umanitaria parlamentare. Da questo Parlamento ho avuto personalmente l’onore e la possibilità di farla crescere, al Palazzo di Vetro e altrove nel mondo, nel quadrante Asia-Pacific, dal Giappone alle Filippine, nei Grandi Caraibi come presidente del Comitato per i Diritti Umani e parte della task force della Farnesina. E con tutta l’esperienza e la capacità maturata con la Comunità di Sant’Egidio, nella Comunità di Sant’Egidio. La diplomazia parlamentare è una nuova frontiera, a mio parere, estremamente importante, in sinergia con gli esecutivi, per accompagnare le difficili decisioni di governi nella lotta per garantire sicurezza ai propri cittadini resistendo alle spinte della paura o del populismo a buon mercato. Ha allora anche questo significato il fatto che questo straordinario Simposio internazionale si svolga qui alla Camera dei Deputati, in questo Parlamento, dove è stata approvata quella Costituzione che esclude la pena di morte dall’ordinamento giuridico.
Oggi i paesi che hanno abolito la pena di morte per tutti i reati o i crimini comunisono 105 e altri 43 non la usano da molti anni, per legge o in pratica.  Esecuzioni sono avvenute negli ultimi due anni in 22 paesi del mondo. E non sono avvenute in altri 180. Il mondo sta cambiando davvero. Siamo a un tornante, a una curva,  e a una accelerazione della storia.

Negli Stati Uniti nel 2015, l’anno appena concluso, le esecuzioni sono state 28, il minimo da venti anni, erano 43 appena 3 anni fa. Più di 1400 dal 1976, quando la Corte Suprema degli USA, 40 anni fa, dichiarò non incompatibile con la Costituzione americana le esecuzioni capitali. Ma il mondo è cambiato. La stessa Corte Suprema ha fatto sentenze restrittive nell’uso della pena di morte per i disabili mentali e per i minori al tempo del reato citando il mutato “standard of decency” della coscienza contemporanea. Quello che sembrava accettabile pochi decenni fa non lo è più.
Per questo sono scese anche le sentenze di morte in America. Solo 2 in Texas, 49 in tutti gli Stati Uniti, l’anno scorso. Mentre erano 72 l’anno prima. In Louisiana, venerdì scorso, è stata rimandata senza scadenza la prossima esecuzione. E’ stata commutata in carcere l’esecuzione del soldato Yim in Corea del Sud, dove sono quasi venti anni che è in atto una moratoria. In Cina il 1 febbraio sono stati sanzionati 27 funzionari pubblici, corresponsabili nell’esecuzione di un teen-ager innocente, con un risarcimento per la famiglia. Segnali. 
Come la crisi dell’iniezione letale negli Stati Uniti iniziata quando qui in Italia la Comunità di Sant’Egidio, con Nessuno Tocchi Caino e il governo italiano sono riusciti a fermare la produzione di sodium thiopental in Italia e da lì una delle tre sostanze del “cocktail” letale è diventata prima introvabile, e poi imbarazzante fornirla. Oggi 8 stati americani ricorrono a una iniezione letale con un solo farmaco, non testato, che a volte ci si procura sul mercato nero, di provenienza non tracciabile, di efficacia preoccupante, con i terribili risultati di esecuzioni che non riescono più a nascondere mezz’ora di agonia e tortura e svelano all’opinione pubblica la barbarie della “morte pulita”. Che non esiste.
Personalmente ogni volta che c’è una notizia terribile, di una terribile esecuzione “difettosa”, “botched”, so che la fine della pena capitale è più vicina. Ma non posso non sentirmi anche un po’ responsabile di quella sofferenza avendo avuto un ruolo nell’eliminazione di uno dei farmaci letali.  In California la Corte si deve esprimere proprio sull’iniezione letale, mentre 746 persone aspettano nel braccio della morte, e l’ultima esecuzione è stata quella di un anziano, 10 anni fa, Clarence Ray Allen. Il 13 agosto 2015 in Pennsylvania Lewis Fogle, un uomo innocente, è stato liberato dal braccio della morte, dopo 34 anni, scagionato dall’esame del DNA. Possibile? E’ possibile perché la giustizia perfetta non esiste.
Innocence Project, che in questi anni ha liberato 337 condannati innocenti negli USA, persone condannate per crimini gravi o omicidio, ci aiuta a capire: nel 70 per cento dei casi la condanna ( degli innocenti scagionati) si è fondata su “testimoni oculari”. Nel 25 per cento dei casi, uno su quattro, i condannati avevano rilasciato e firmato confessioni. Ma erano innocenti. “Ma come? Ha confessato, l’hanno visto in  tanti con certezza, era lui di sicuro!”. No. Ci sono sistemi giudiziari che sembrano perfetti ma preferiscono un falso colpevole e lasciare fuori il colpevole vero per mostrare alla popolazione, agli elettori, che si ha un’alta capacità investigativa e che si prende sempre il colpevole. 

L’unica cosa certa, sicura, è che la vita che viene tolta non può mai essere restituita in caso di errore. Che anche un solo innocente ucciso macchia l’intera società di omicidio. Abbassa l’intera società a livello di chi uccide. E afferma al livello più altro quello dello stato, una cultura di morte, quella cultura di morte che si vorrebbe delegittimare e sconfiggere.
La pena di morte, si sa, colpisce in maniera sproporzionata le minoranze politiche, sociali, religiose, etniche, l’”avversario” politico o sociale  o additato tale. Nelson Mandela poteva essere condannato a morte. Gli fu dato il carcere a vita. Non ci sarebbe stato il nuovo Sudafrica. 
La pena di morte crea sempre nuove vittime: non guarisce dall’odio e dal dolore le famiglie di chi ha subito una perdita del proprio caro, aggiunge vittime alle vittime, perché strappa le famiglie dei condannati a morte, toglie un padre e una madre ai figli, sicuramente innocenti, incolpevoli. Crea “i figli del mostro” tra persone innocenti.
La pena di morte promette una falsa guarigione dal dolore. Non si guarisce mai aggiungendo a una morte un’altra morte. Lo dice la psicologia, la scienza dei comportamenti ( ma non c’è niente di razionale nell’uso della pena capitale). Ce lo dicono molte famiglie delle vittime. La pena di morte è spesso una scorciatoia “militare “di fronte a complicati problemi sociali, quando si fa fatica a ridurre la violenza diffusa e non si sa o non si vuole investire in guarigione sociale, educazione, rottura dell’emarginazione, in società alterate da troppe dipendenze e tossicodipendenze. 
La pena capitale impedisce la riconciliazione dopo una guerra. Ce lo fate capire voi, dalla Cambogia, dal Ruanda, dal Burundi, che avete le ferite di terribili genocidi, e che avete provato a chiudere quella stagione di odio e di morte togliendo la pena di morte e la vendetta dalle vostre leggi. Grazie per il vostro esempio. A chi pensa che solo l’esistenza della pena di morte può essere un freno alla violenza estrema voi ricordate il contrario. Siete la prova vivente del contrario. Anche se la tentazione della violenza è sempre vicina, e siamo vicini al Burundi nel vostro difficile momento e nello sforzo di pace. Ce lo ha fatto capire meglio il Sudafrica, che è uscito dalla terribile storia dell’apartheid attraverso la Commissione delle colpe e del perdono, rifiutando la pena di morte come pena. Interrompendo così un ciclo di vendetta e di rancore. 
Ma in Egitto, in Arabia Saudita le esecuzioni non diminuiscono, anzi crescono. in Iran almeno 73 minori, ragazzi e adolescenti sono stati uccisi dallo stato negli ultimi venti anni. Esecuzioni sono riprese in Giordania, Pakistan, Indonesia come “risposta” al terrorismo.
Ecco allora l’importanza straordinaria della sfida di questo Simposio internazionale. La vostra sfida e responsabilità.  Come uscire dalla pena di morte in un tempo di guerre, di violenza diffusa, di terrorismo internazionale e di paura? Non è una battaglia impossibile, troppo ingenua, e inutile al tempo di Daesh e delle esecuzioni dei cristiani copti mandate in mondovisione per attrarre, minacciare, creare orrore e paura? Non è una battaglia sbagliata?

Io penso che qui sta una grande sfida per l’Occidente. Non cadere nella trappola del terrore. Come quello della paura che Daesh, il Califfato, vorrebbe paralizzasse le democrazie occidentali, mentre cerca di prendere l’egemonia nel mondo sunnita usando l’Occidente come megafono e teatro. E allora dobbiamo capire cosa sta accadendo.
Nel 2014 le vittime del terrorismo nel mondo sono state 32.700, in 67 paesi. Sono i dati del Dipartimento di Stato americano. 6644 persone uccise da Boko Haram, 6073 da Daesh, 3477 dai Talebani, e poi Fulani e Al Shaabab tra i principali autori. Irak, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria le popolazioni più colpite. Poi India. Le vittime civili il 77 per cento  negli attentati di Boko Haram e il 40 per cento in quelli firmati dal Califfato. In Occidente il 2,6 per cento delle vittime. Troppo anche una sola vittima. Ma non si può non vedere che l’escalation da 6-7 mila l’anno a più di 30 mila coincide con l’inizio dell’escalation militare in Siria e che oggi spiragli di pace sono legati a un negoziato politico e non a una soluzione militare. Il 97,4 delle vittime di attentati terroristici non è in Europa, in America, ma in altri paesi. Lo scorso anno l’attentato più terribile con 670 persone uccise è avvenuto a Badush, in Irak. Ma chi lo sa? Chi lo ricorda? Ieri 7 persone sono state uccise da uno dei tanti americani folli di violenza che odiano gli altri americani, come il giovane norvegese che odiava i giovani norvegesi. Lo sappiamo tutti.  C’è una sproporzione. Ma forze politiche importanti e irresponsabili, in Occidente, in Europa, anche in Italia invocano la pena di morte come se noi fossimo il target di tutti gli atti di terrorismo del mondo e come se servisse a qualcosa. Regalano la vittoria ai cultori della morte amplificando la paura, la predicazione del disprezzo, e chiedono,  irresponsabilmente, paradossalmente, di imitare chi si vorrebbe combattere.  E chiudono le porte ai perseguitati e ai profughi di queste guerre. Dicono: “alla morte si risponde con la morte”, “alla guerra con la guerra”, “alla violenza con più violenza, definitiva”: e si perde in umanità e in lucidità: non si vede più nei perseguitati, nei profughi, nei bambini che muoiono due al giorno in mare persone con i nostri occhi e i nostri volti, ma solo “potenziali nemici”.

E’ la trappola in cui il Califfato vuole che cada il mondo occidentale. E’ la cultura di morte che vuole diffondere, perché si alimenta di cultura di morte e di guerra. L’unica cosa di cui il Califfato non ha paura è la morte. In tempi di attentati suicidi, di bambini addestrati per morire felici facendo morire tanti, la morte è compresa nel prezzo. La morte è desiderata, esibita, deve diventare contagiosa. 
Per questo è oggi più che mai il tempo di un rifiuto radicale della morte e di una cultura di morte. Per essere radicalmente diversi. Per attrarre nuovamente al gusto di vivere insieme i foreign fighters, chi parte credendo che in quella morte c’è una rigenerazione sociale. Per questo è il tempo di uscire definitivamente dalla pena di morte, di compiere i passi che ci rendono diversi anni luce dall’ideologia nera del califfato e riaprono la strada a una giustizia che sa sempre rispettare la vita.
Andrea Riccardi ha invitato a gennaio i capi di stato che ancora hanno la pena di morte nei propri ordinamenti a non usarla, in questo Anno della Misericordia.  Poi, più forti, pubbliche, chiare, universali sono arrivate le parole di Papa Francesco di ieri. Siamo invitati a uscire definitivamente da un’idea di giustizia-non giustizia, incapace di contenere la riabilitazione al suo interno.  Niente più esecuzioni. E via la pena di morte. Non c’è giustizia, non c’è pena lecita, se non contiene la possibilità di cambiare. Oggi questo diventa possibile. E’ una necessità storica. E’ nelle mani di voi ministri della Giustizia, giudizi costituzionali, di noi Parlamenti, delle donne e degli uomini di buona volontà. Non possiamo lasciare cadere questo Appello. Ci aiuterà anche ad uscire dalla guerra e dal terrorismo. 
“Non c’è giustizia senza vita” è il bello slogan della Comunità di Sant’Egidio per la Giornata Mondiale delle Città contro la Pena di Morte, “Cities for Life”. Possiamo farlo diventare realtà senza eccezioni.


Nessun commento:

Posta un commento

I vostri commenti sono graditi. La redazione si riserva di moderare i commenti che non contribuiscono alla rispettosa discussione dei temi trattati