da Avvenire del 12/6/2015
di Giulia Mazza
Appeso per il collo «fino al sopraggiungere della morte»: così Aftab Bahadur Masih, cattolico pachistano, è stato ucciso alle 4.30 (ora locale) di ieri nel carcere Kot Lakhpath di Lahore (provincia del Punjab). Impiccato come stabilito dalla condanna capitale comminatagli quando aveva appena 15 anni, per un pluriomicidio di cui si è sempre dichiarato innocente. Il prossimo 30 giugno avrebbe compiuto 38 anni, di cui 23 passati nel braccio della morte, dedicandosi alle sue due più grandi passioni: la poesia e la pittura.
I DUBBI SUL DELITTO
AsiaNews ha ricostruito la storia di Aftab. Il 5 settembre 1992 la polizia lo arresta per l’omicidio di una donna, Sabiha Bari, e dei suoi due figli. Due testimoni oculari lo accusano dell’assassinio: una dichiarazione che, più avanti, ritratteranno, ammettendo di averla resa sotto tortura. Le forze dell’ordine, però, non ne tengono conto. Tra i due accusatori c’è Ghulam Mustafa, idraulico per cui il ragazzo lavora come apprendista, anch’egli arrestato e poi condannato a morte (verrà graziato in extremis). Anche Aftab ha detto di aver subito torture volte ad estorcergli una confessione di colpevolezza. Racconterà qualche anno più tardi che al momento dell’arresto gli agenti gli chiesero 50mila rupie (circa 430 euro) per lasciarlo andare: ma era solo un apprendista, e non aveva i soldi per pagare la “mazzetta”.
IL PROCESSO «LAMPO»
La vicenda attira una certa attenzione da parte della stampa locale. Le tre vittime appartengono a una famiglia di commercianti, che fa pressione affinché il caso venga risolto al più presto. Il giovane viene indagato e processato in base allo Speedy Trial Act (1991), legge controversa che prevedeva la creazione di tribunali speciali per risolvere in modo veloce i casi di persone accusate di «crimini brutali». I legali, che assistono il ragazzo pro-bono tramite l’Ong britannica “Reprieve”, non hanno il tempo di preparare una difesa, e nell’aprile del 1993 viene condannato a morte per impiccagione.
UN MINORE SUL PATIBOLO
All’epoca, il Pakistan era uno degli otto Paesi al mondo – insieme a Cina, Repubblica Democratica del Congo, Iran, Nigeria, Arabia Saudita, Stati Uniti e Yemen – ad ammettere la pena di morte per minori di 18 anni. Pur avendo innalzato l’età minima a 18 anni nel 2000, il caso di Aftab non è mai stato rivisto.
L’APPELLO DEI VESCOVI
Leader religiosi cattolici e cristiani e attivisti per i diritti umani – a livello nazionale e internazionale – hanno lanciato numerosi appelli chiedendo clemenza per Aftab, come più volte riportato da AsiaNews.
Il 6 giugno monsignor Joseph Coutts, arcivescovo di Karachi e presidente della Conferenza episcopale del Pakistan, ha scritto una lettera al presidente del Paese, Mamnoon Hussain, chiedendo una nuova inchiesta. In una missiva separata, altri leader religiosi cristiani hanno chiesto clemenza per Aftab. È opinione di tutti, che il processo sia stato viziato da indagini parziali e testimonianze false.
NESSUNA SOSPENSIONE
Tuttavia, l’altro ieri, ossia un giorno prima dell’esecuzione di Aftab, l’Alta Corte di Lahore ha respinto la richiesta di sospensione della pena, negando agli avvocati di produrre nuove prove della sua innocenza. Nella stessa giornata, le autorità della prigione di Sahiwal hanno impedito ai legali di vedere Ghulam Mustafa (il capo idraulico), che aveva espresso il desiderio di firmare una dichiarazione scritta, ammettendo di aver testimoniato il falso contro Aftab. L’esecuzione di Mustafa – prevista sempre ieri – è stata fermata all’ultimo minuto.
IL NUMERO 160
Ieri Aftab Bahadur Masih, il giovane che amava la pittura e la poesia, è diventato uno dei 160 detenuti messi a morte in Pakistan dal 17 dicembre 2014, quando il governo ha revocato la moratoria sulla pena di morte dopo l’attentato taleban a una scuola di Peshawar, in cui sono morti in 148.
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